Viene da chiedersi se un redivivo Generale von Clausewitz affermerebbe ancora che «la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi», vedendo i conflitti del secolo in corso. Non che le guerre moderne siano meno crudeli di quelle del suo tempo, ma è verosimile immaginare che il militare prussiano si troverebbe spiazzato di fronte a un inedito rapporto tra arte della politica e campi di battaglia. Fino al tempo della Guerra Fredda, gran parte dei conflitti potevano essere inquadrati nel confronto tra dottrine antitetiche, inabili a risolvere i propri contrasti per mezzo del dialogo.

Oggi, la caduta delle ideologie storiche e la conseguente crisi della politica, sempre più impegnata a rispondere alle urgenze del presente che a immaginare un progetto di futuro, ha affossato ogni certezza. Già negli otto anni di guerra in Iraq e nel ventennale conflitto in Afghanistan abbiamo vissuto contese tremende e logoranti, divampate in reazione a un’immediata contingenza anziché in funzione di una profondità di visione.

Per poter tornare a concepirla come la prosecuzione di una strategia politica, i contendenti di una guerra moderna dovrebbero potersi porre una domanda precisa: «cosa succederà dopo?». E per corollario, «come gestirò le terre conquistate?», «cosa farò con i popoli vinti?». Questioni che non sembrano trovare risposte chiare negli scontri odierni.

Di certo non se le pone un gruppo terroristico che massacra innocenti: il fanatismo è agli antipodi della progettualità, ma la storia recente ha mostrato come anche gli Stati sovrani abbiano perso la capacità di proiettarsi oltre la quotidianità incombente. È logico e legittimo che chi si trova in pieno conflitto indirizzi la sua azione politica nella più spontanea delle risposte militari. Una condotta condivisa tanto a Gerusalemme quanto a Kiev che affidano alla «prossima offensiva» la soluzione decisiva alla propria contesa.

È una rotta che non si può variare mentre la battaglia è in corso: sarebbe irragionevole chiedere a cittadini e comunità impegnate nella lotta per la sopravvivenza di immaginare una qualche nuova forma di iniziativa politica. Ma gli attori non coinvolti in maniera diretta hanno la responsabilità di mantenere una prospettiva più ampia, necessaria per ideare soluzioni impensate a conflitti altrimenti destinati a diventare globali. Eppure nessuno, Europa o USA, ONU o Cina, finora ha saputo, o voluto, avanzare una qualche proposta di futuro eventuale. Se a Monaco nel 1938 fu la scelta politica di una “pace a ogni costo” a portare alla guerra, oggi, al contrario, è l’assenza di visioni a fare sì che le armi rimangano unico strumento per rispondere alla realtà che abbiamo di fronte.

Una guerra priva di politica, meramente tecnica, è una guerra non solo senza futuro, ma pericolosamente senza passato. Senza un coraggioso e doloroso confronto con le questioni che l’hanno generata, è destinata a scatenarsi solo nel presente di un altro giorno di battaglia, dove tutto ciò che vale è la conta desolante dei nemici distrutti. E’ in questa situazione che si palesa il nemico più temibile: il tempo. Perché entrare in un conflitto senza che ci siano le condizioni per eliminare o venire a patti con le radici dell’odio fa sì che queste siano destinate a gettare nuovi germogli all’infinito. Quanto potrà resistere una pace basata sulla sola vittoria militare, in Ucraina come in Medio Oriente, prima che l’altro si riorganizzi e attacchi di nuovo? Se la guerra non è anche politica, il tempo non potrà che vincere, inesorabilmente.

La lezione di von Clausewitz ci appare come una dottrina lontana nei cruenti e confusi scontri di oggi, ma potrà tornare a portare chiarezza a una politica nuova per un futuro diverso: obbligata a ritrovare il suo ruolo di guida nell’immaginario collettivo, anche correndo il rischio di inevitabili contrasti tra visioni opposte. Questo non farà certo cessare le guerre, ma forse, rendendole più comprensibili, aiuterà la pace a sopravvivere anche all’attacco del tempo.

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