E dopo? Comunque finirà la guerra di Gaza, Israele adesso non può non sapere che il suo vantaggio tecnologico sul nemico è minore di quanto credesse, e in ogni caso non ripara la popolazione ebraica dal rischio di aggressioni feroci. Da qui a una decina d’anni un’organizzazione palestinese dotata di armi avanzate – per esempio batteriologiche – sarà in grado di minacciare stragi di larghe proporzioni, o di produrle.

Perciò sarebbe anche nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza: come adesso è definitivamente chiaro, la fiducia riposta nella deterrenza bruta, esercitata attraverso vendicative “punizioni esemplari”, strapotere militare e un esercizio sommario della violenza, produce solo un’ingannevole percezione di sicurezza, utile a vincere le elezioni ma non a proteggere il paese.
Né lo proteggerà il volatile sostegno dei sovrani arabi convinti ad entrare nel Patto d’Abramo, fino a ieri spacciato da Benjamin Netanyahu per una svolta decisiva. Di decisivo ormai può esserci solo questo: un piano per avviare a soluzione il conflitto arabo-israeliano. 

In Egitto e Giordania

Qualcosa del genere non sembra affatto nelle prospettive del governo Netanyahu. Che tuttavia sembra tentato dalle possibilità che offrirebbe la guerra di Gaza per inventare un nuovo assetto geopolitico. Da qui il sospetto circolato nelle capitali arabe: lo stato ebraico confida che i bombardamenti e l’acuirsi della crisi umanitaria inducano una parte della popolazione di Gaza a mettersi in salvo scappando in Egitto.
Se un milione di palestinesi si accampasse in territorio egiziano e non potessero più tornare indietro, non solo la terra spopolata di Gaza sarebbe per Israele più controllabile, ma prenderebbe quota un progetto fatto circolare nel 2014: creare nel Sinai uno stato palestinese grande cinque o sei volte la Striscia di Gaza (che sarebbe inclusa). 

In quel caso Israele potrebbe annettersi la West Bank senza annettersi i palestinesi, dato che quelli diventerebbero cittadini di un altro stato, dunque espatriati soggetti ad espulsione se non rigassero dritto.
Il problema è che i palestinesi hanno rifiutato e continueranno a rifiutare uno stato in terra straniera (e si può capirli: se domani si dicesse a qualche milioni di italiani che la loro Italia è la Corsica, quelli reagirebbero male). 

È di fatto inesistente anche la possibilità di ‘ricollocare’ in Giordania i palestinesi del West Bank in fuga, se la guerra si estendesse a quei territori. La monarchia giordana non aprirebbe le frontiere, nel ricordo di quanto avvenne dopo il conflitto del 1967: scappati dal West Bank, i guerriglieri dell’Olp cominciarono a spadroneggiare in territorio giordano. Da allora il re preferisce tenersi lontano tanto dall’Op quanto dal conflitto arabo-israeliano. 

Se dunque l’offensiva israeliana a Gaza fosse molto più di quella che appare a B’tselem una «vendetta criminale» (l’ong di ex militari israeliani ha denunciato «crimini di guerra ordinati apertamente da alti ufficiali»), l’indisponibilità egiziana e giordana ad accogliere esodi di palestinesi profila un ostacolo insormontabile al progetto di “ricollocazione”. 

L’ipotesi protettorato

Né probabilmente avrebbe più fortuna un altro progetto immaginifico di cui si discute in queste ore: la Striscia di Gaza potrebbe passare sotto il controllo di una forza multinazionale formata dalla Lega araba, con il mandato di proteggere il personale delle Agenzie umanitarie Onu e neutralizzare Hamas radicali. Questa la teoria.
Ma nella pratica l’avversione al rischio dei regimi arabi rende difficile cooptarne almeno alcuni in questo piano.
I loro soldati dovrebbero misurarsi in difficili esercizi di equilibrismo per evitare di essere percepiti come ascari di Israele dalla popolazione di Gaza. E i loro governi, che temono la piazza, probabilmente li inviterebbero a non cacciarsi nei guai. I 60mila miliziani di Hamas non faticherebbero a trovare un accomodamento con quei contingenti e presto tornerebbero alle loro attività tradizionali.

Andrebbe meglio con caschi blu europei? Nel sud del Libano il contingente italiano ha fatto il miracolo di mantenere la pace. Ma non può impedire che saltuariamente Hezbollah lanci missili sul territorio israeliano.
Però Hamas è molto più piccola di Hezbollah: se a Gaza l’esperimento di un “protettorato Onu” riuscisse, potrebbe essere ripetuto nel West Bank. Dove però i militari Onu si troverebbero coinvolti nei conflitti tra palestinesi e “coloni”. Né gli uni né gli altri li percepirebbero equidistanti. Presi nel mezzo da due schiere armate, finirebbero per defilarsi.  

Lo stato impossibile

Non è un reato essere più ottimisti, purché con onestà e coerenza. I governi occidentali si dicono convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, ma è solo un esercizio di futilità diplomatica: fossero coerenti avrebbero arginato con sanzioni il dilagare degli insediamenti. Poiché evitano, sembrano segretamente consapevoli che l’ipotesi di uno stato palestinese è morta da quando la destra israeliana favorisce il moltiplicarsi degli insediamenti, gran parte dei quali oggi sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele.  

La verità indicibile è semplice: se è totalmente irrealizzabile uno stato palestinese secondo gli Accordi di Oslo (1995), cioè inclusivo di tutti i Territori occupati, non ha speranze neppure uno “stato minimo”, grossomodo sovrano su una metà del West Bank. Comprenderebbe le città palestinesi, che oggi formano, con le campagne limitrofe a ciascun centro urbano, una sorta di frammentato arcipelago.
Per dotarle di continuità territoriale dovrebbe inglobare aree e strade oggi sotto il controllo dell’esercito israeliano. Ma questo taglierebbe le comunicazioni tra Israele e molti insediamenti, che resterebbero isolati. 

Inoltre la nascita di uno “stato minimo” palestinese sul territorio dell’Israele biblica provocherebbe la rivolta della destra religiosa e 
di molti tra i 640mila ‘coloni’, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. 

Infine, non si può negare che uno stato palestinese nel West Bank costituirebbe un rischio obiettivo per Israele. Se si consegnasse agli oltranzisti o precipitasse nella condizione di stato fallito, diventerebbe una simil-Gaza, però a due passi da Gerusalemme.  

Coraggiosa follia

Scartata la soluzione dello stato palestinese, cosa resta? Resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati. Progetti in questo senso sono stati formulati in ambito accademico. Stando ad un sondaggio, un anno fa l’idea dello stato unico convinceva un terzo degli interpellati nel West Bank. Tra gli ebrei israeliani la quota dei favorevoli oggi sarebbe molto più bassa.
Eppure già adesso Israele è una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione. Non potrebbe più essere, però, “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori. Però prima del 1940 una parte del sionismo sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo ringiovanisse: quanto appunto garantirebbe uno stato binazionale. 

Proporre questa soluzione adesso può apparire delirante: ma quarant’anni nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti. All’epoca il governo di Pretoria si spacciava per “l’unica democrazia della regione” e l’Anc di Mandela praticava la lotta armata, inclusiva di bombe in bar e ristoranti frequentati da militari o poliziotti (ma a morire erano anche i civili).
Gli attentati non erano infrequenti (1599 tra il 1976 e il 1990) e l’Anc appariva nella Terror Watch List statunitense, dove rimase fino al 2008.
C’è terrorismo e terrorismo, l’Anc mai ha sfiorato i livelli di infamia raggiunti nel massacro di Kfar Aza. Ma è altrettanto vero che tanti palestinesi non condividono affatto una mostruosità di quel genere. Nel mezzo di una guerra, forse è troppo chiedere che condannino Hamas, e con la nettezza con la quale i non molti liberali israeliani condannano i bombardamenti di Gaza. Ma presto anche loro dovranno porsi domande e riflettere con coraggio sul futuro. Dopotutto, se non ora quando?

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