«Il popolo di Israele ha un diritto esclusivo, totale e inalienabile su ogni porzione della Terra di Israele». La radice dell’attuale conflitto sta in questa affermazione, che non è stata pronunciata da un estremista fanatico bensì dal premier israeliano Benyamin Netanyahu. Come non bastasse, vanno ricordate anche le tante dichiarazioni di un altro membro del governo, Itamar Ben-Gvir, questo sì un estremista fanatico, tanto da essere stato condannato per il suo sostegno al movimento Kach, da Israele stesso definito terrorista.

Di un esponente di questo movimento, Baruch Goldstein, che nel 1993 uccise 29 palestinesi in preghiera, Ben-Gvir, in passato, teneva un ritratto in casa, forse per trarne ispirazione. Nonostante ciò Netanyahu gli ha assegnato il ministero della Sicurezza nazionale. In questo contesto è calata anche l’irruzione della polizia nella moschea Al Aqsa, il terzo luogo sacro dei mussulmani, nell’aprile di quest’anno; un’operazione probabilmente non indispensabile per la sicurezza d’Israele ma certamente una terribile offesa alla sensibilità religiosa della comunità. Del resto, cosa avrebbero pensato i cattolici europei se i bersaglieri fossero entrati in San Pietro il 20 settembre…

Per tutto ciò, e anche altro, tanti analisti hanno convenuto che l’attacco di Hamas non poteva sorprendere. Era scritto nelle cose. Così come la ferocia belluina con cui si è svolto. Quanto i governi Netanyahu portino la responsabilità dell’ultimo scoppio di violenza non è denunciato da filo-terroristi, come molta stampa senza vergogna suggerisce, bensì dalle voci più intelligenti e più liberal d’Israele. E non tanto e solo da anime belle, come si direbbe a destra, cioè dagli intellettuali, da David Grossman o Yuval Noah Harari, bensì da alti ufficiali dell’esercito e da dirigenti politici israeliani.

L’ex ministro degli esteri Shlomo Ben-Ami ha scritto che Netanyahu, nella sua logica distorta, ha pensato di lasciare mano libera ad Hamas e al suo radicalismo a Gaza, per indebolire la componente moderata di Mahmoud Abbas in Cisgiordania, e così chiudere la questione palestinese per sempre. E conclude lapidario: «L’hybris di Netanyahu trova la sua nemesi nella barbarie di Hamas». 

La vera linea divisoria nel dibattito politico, quindi, non riguarda la contrapposizione tra filo-israeliani e filo-palestinesi, ma piuttosto tra la destra e la sinistra israeliana. La linea divide, da un lato, chi sostiene gli estremisti del governo Netanyahu con la loro pretesa di cacciare i palestinesi perché alieni e “impuri” rispetto al sacro suolo d’Israele, prefigurando un sistema di apartheid modello Sudafrica pre-Mandela; e, dall’altro, chi si considera erede del movimento Peace Now, chi celebra il martirio del laburista Itzhak Rabin, ucciso da un estremista di destra per aver siglato gli accordi Oslo nel 1993, e chi mantiene vivo il progetto due popoli e due stati in un’ottica di convivenza pacifica.

Oggi tutto può naufragare in una spirale di vendetta, del sangue chiama sangue, cara agli integralisti di entrambe le parti; oppure risalire dall’abisso e trovare finalmente una strada per risolvere questo conflitto interminabile. Le parole del presidente Joe Biden e di tutta l’amministrazione americana hanno acceso una luce di speranza. Hanno dimostrato che l’appoggio all’unica democrazia del Medio-oriente non comporta il disdegno dei diritti di un altro popolo. Una visione che la destra di casa nostra non concepisce nemmeno.

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