A oltre dieci giorni dalla sanguinosa incursione di Hamas nel sud di Israele, il medio oriente è in fibrillazione. Eventi drammatici si succedono a ritmo incalzante: lo shock e il lutto in Israele per le oltre 1.300 vittime dell’attacco terroristico a sorpresa; la preoccupazione per la sorte dei 199 ostaggi in mano ai miliziani; l’immediata e durissima reazione di Israele, che ha dichiarato guerra, mobilitato oltre 300.000 riservisti e scatenato un bombardamento senza precedenti nella Striscia di Gaza; l’incombente catastrofe umanitaria per i civili palestinesi, con già un numero altissimo di vittime, feriti e sfollati, e la distruzione di interi quartieri; il blocco della forniture di cibo, acqua, carburante e medicinali a Gaza e l’ordine di evacuazione per oltre un milione di civili dal nord della Striscia. L’incalzare degli avvenimenti da il segno della portata della crisi. Da una parte Hamas, che affronta una sfida esistenziale volutamente provocata nella speranza che la guerra porti a scenari più favorevoli. Dall’altra la popolazione palestinese, che oltre all’esorbitante prezzo umanitario, corre anche il rischio di essere costretta a un esodo di massa da Gaza.

Aggiunto all’aumento indiscriminato degli insediamenti illegali di coloni in Cisgiordania, un nuovo esodo dalla Palestina creerebbe un radicale cambiamento nella situazione sul terreno, mettendo definitivamente fine alla soluzione dei due Stati. Ma anche per Israele la posta in gioco è altissima. Sul piano simbolico, si tratta di restituire sicurezza ai suoi cittadini, fortemente scossi dall’attacco del 7 ottobre e dal fallimento dell’apparato di sicurezza. Ma anche dalla polarizzazione interna prodotta dalle controverse politiche del governo di ultra-destra di Netanyahu, a cui una parte degli israeliani attribuisce la responsabilità di questa crisi. Al contempo si tratta anche di ristabilire un’immagine di invincibilità nella regione, attraverso l’uso schiacciante della potenza militare su cui ha costruito per decenni la propria sicurezza.

Sul piano militare inoltre l’obiettivo dichiarato è la completa distruzione di Hamas. Un cambio di rotta dopo che per anni Israele ha cercato di gestire la minaccia con interventi militari contenuti e con un assedio che ha trasformato Gaza in una prigione a cielo aperto per oltre due milioni di palestinesi. Ma nei piani potrebbe esserci anche l’espulsione di questi ultimi verso l’Egitto e la creazione di una zona di sicurezza a Gaza. Obiettivi massimalisti, la cui realizzazione richiederà probabilmente una guerra lunga e difficile - dato anche il complicato teatro urbano altamente popolato – e dai risvolti imprevedibili. Quale sarà infatti l’impatto internazionale di una probabile catastrofe umanitaria? Quanto può spingersi Israele senza mettere a repentaglio l’appoggio, per ora incondizionato, degli alleati occidentali? Quali saranno le reazioni dei paesi arabi - incluso quelli che hanno normalizzato le relazioni con Israele - dove la crisi a riacceso l’appoggio, mai sopito, alla causa palestinese?

La dimensione regionale

Ma la crisi ha anche una preoccupante dimensione regionale. Nei giorni scorsi vi sono stati infatti pericolosi segnali di escalation. Al confine con il Libano, Israele è da giorni coinvolto in una serie di scambi di artiglieria con Hezbollah, per il momento contenuti. Questi ultimi hanno dichiarato di essere pronti a entrare nel conflitto se la situazione sul terreno lo richiedesse, mossa che aprirebbe per Israele un secondo fronte a nord con un potente nemico, rendendo molto più complesse le operazioni militari.

Oltre agli Hezbollah, anche gli altri membri del cosiddetto “asse della resistenza” – le milizie sciite in Iraq, gli Houthi nello Yemen, tutti sostenuti dall’Iran – hanno espresso con forza il sostegno ad Hamas, impegnandosi a reagire in caso di intervento degli Stati Uniti. A loro volta gli Stati Uniti hanno intensificato l’assistenza militare a Israele e spostato due porta aeree nel Mediterraneo orientale. Un segnale della determinazione della superpotenza a sostenere Israele, volto anche a scoraggiare altre parti dall’approfittare del conflitto. L’Iran, che ha fermamente negato di avere parte attiva nell’attacco di Hamas, è chiaramente preoccupato dal rischio di uno scontro diretto con Israele e gli Stati Uniti.

Ma Teheran è al contempo prigioniero di decenni di interventismo regionale. Potrebbe non essere in grado di arrestare le dinamiche prodotte dalla sua rete di alleanze nella regione e finire preso nella spirale bellica. In questo quadro, e nell’imminenza di un attacco terrestre israeliano a Gaza, l’attenzione delle diplomazie internazionali e regionali è concentrata sul tentativo di evitare l’allargamento della guerra. Il segretario di Stato americano Blinken è impegnato in un giro di sei capitali dalla regione, rendendo chiaro che gli Usa sostengono l’operazione militare Israeliana e mettendo in guardia l’Iran da un intervento diretto o indiretto nel conflitto. La Cina - broker emergente nella regione dopo il successo nella riconciliazione tra sauditi e iraniani - ha annunciato un suo tentativo di mediazione questa settimana, invitando al contempo Israele alla moderazione nell’uso della forza e a un cessate il fuoco. Russia e Cina - che pure vogliono salvaguardare l’importante relazione che entrambe hanno con Israele e vedono con preoccupazione il coinvolgimento USA - convergono nel sottolineare l’importanza del contesto in questa crisi e sulla necessità di rilanciare i negoziati per risolvere l’annosa questione palestinese.

Ricetta sbagliata

Anche le potenze regionali sono preoccupate dal rischio di un coinvolgimento. L’Arabia Saudita ha avuto uno scambio telefonico con l’Iran, mentre il ministro degli Esteri iraniano ha visitato Libano, Iraq e alcune capitali del Golfo. Le monarchie arabe sono divise nella crisi, con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein che hanno manifestato pieno sostegno a Israele e l’Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e Oman con posizioni filo-palestinesi. L’Arabia Saudita ha inoltre congelato i colloqui sulla normalizzazione con Israele. Per tutti la questione umanitaria è centrale e la richiesta di un corridoio umanitario è tra le prime priorità per ridurre l’impatto sui civili di Gaza e accrescere la speranza di contenere la crisi, anche se tale speranza rischia di essere illusoria vista la situazione sul terreno. L’Egitto si trova di fronte al dilemma più difficile: aprire o no il valico di Rafah per consentire l’afflusso di rifugiati nel suo territorio, col rischio che vi rimangano indefinitamente.

Resta da vedere se la l’atmosfera di distensione che aveva caratterizzato le relazioni diplomatiche regione negli ultimi tre anni riuscirà a sopravvivere alle rinnovate tensioni. Un mantenimento dei canali di dialogo fra le parti è essenziale e potrebbe giocare un ruolo importante nel favorire la de-escalation e affrontare il dopoguerra. In ogni caso la lezione che possiamo trarre sin d’ora da questa drammatica situazione è che l’idea di una normalizzazione regionale senza includere la questione palestinese non poteva funzionare. Trascurare la ricerca di una risoluzione politica del conflitto israelo-palestinese è stato sicuramente un errore che non dovrà essere ripetuto.  

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