Il 16 marzo il presidente Emmanuel Macron ha deciso di forzare la mano al parlamento francese facendo ricorso all’articolo 49,3 della costituzione per far passare la sua controversa riforma delle pensioni. Il 49,3 è una versione estrema del nostro voto di fiducia: se il governo vi fa ricorso, il testo è adottato senza voto, salvo che in parlamento venga depositata, e votata, una mozione di censura; in tal caso, il provvedimento non è adottato e il governo cade.

Per la riforma delle pensioni due mozioni di censura non hanno raggiunto la maggioranza, anche se per pochissimi voti. Dopo un giudizio di legittimità costituzionale, che dovrebbe arrivare la settimana prossima, la riforma sarà quindi legge e sarà applicata a partire dal settembre prossimo.

Il ricorso al 49,3 è un momento di svolta; negando la solenne promessa che non vi avrebbe fatto ricorso e che si sarebbe sottoposto al voto, Macron è andato allo scontro con sindacati e opposizioni.

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I suoi sostenitori sono praticamente muti da giorni e molti, anche tra i politici centristi favorevoli alla riforma, hanno fustigato la forzatura democratica; le proteste, fino ad oggi massicce e pacifiche, si sono radicalizzate.

Certo, i ministri e il presidente si sgolano a ripetere che il ricorso all’articolo è legittimo e che questo è stato usato molte volte in passato.

Ma questa è una mezza verità: l’articolo dovrebbe servire a (ed è quasi sempre stato usato per) accelerare processi legislativi impantanati dall’ostruzionismo delle minoranze, non ad aggirare il parlamento da parte di un governo che non ha la maggioranza.

Come notano molti commentatori, assistiamo oggi alla situazione inedita di un Presidente che forza l’adozione di un provvedimento contro il volere del Parlamento e del popolo (oltre ai due mesi di manifestazioni, ci sono i sondaggi che danno i due terzi dell’opinione pubblica contraria alla riforma).

Fare cassa sulla pelle dei più deboli

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Nel 2019 Macron aveva già presentato una proposta di riforma del sistema pensionistico, che ridisegnava l’intero sistema (in particolare cercando di ridurre il numero dei cosiddetti regimi speciali).

La proposta, anche se non fosse stata spazzata via dalla pandemia, non avrebbe sicuramente avuto vita facile ed era criticabile per moltissimi aspetti; essa aveva tuttavia il merito di ambire a razionalizzare il sistema.

La riforma appena adottata, invece, ha abbandonato ogni velleità di riorganizzazione della previdenza, e si pone il solo obiettivo, giocando esclusivamente sulla durata di contribuzione e sull’età pensionabile, di fare cassa.

Del resto, la presunta insostenibilità del sistema pensionistico è stato il solo punto su cui ha insistito Macron in un’intervista mercoledì scorso che ha ulteriormente attizzato il fuoco delle proteste.

Parliamo di “presunta” insostenibilità perché il prestigioso Conseil d’Orientation des Retraites, le cui analisi e scenari costituiscono il riferimento per le politiche del governo e per il dibattito sul tema, mostra in realtà che nella maggior parte degli scenari basati su ipotesi realistiche di crescita, il sistema avrebbe un disavanzo modesto nel decennio 2030-2040 (il picco dell’impatto dei baby boomer) per poi tornare sostanzialmente in equilibrio.

Del resto, sia pure in modo cauto, molti esponenti del partito del presidente hanno a più riprese detto che la riforma delle pensioni serve a liberare risorse per altre voci di spesa, ammettendo così implicitamente che non esiste un problema di equilibrio del sistema previdenziale.

Ma assumendo con il presidente francese che fare cassa sia necessario, allora la domanda principale, l’unica che conta, è “chi paga”. Ed è qui che le scelte del governo francese sono chiare e spiegano l’ampiezza delle proteste.

I perdenti della riforma Macron sono i lavoratori precari, quelli con le carriere spezzettate, le donne, chi inizia a lavorare presto (quindi, tipicamente, è privo di un titolo di studio superiore). È soprattutto a queste categorie che viene chiesto di lavorare più a lungo o di accettare una riduzione della pensione. Il “presidente dei ricchi”, insomma, ha colpito ancora.

Macron ha a lungo sostenuto la teoria per cui trasferire risorse verso i più ricchi e capaci farebbe aumentare produttività e crescita, portando benefici (“sgocciolando”) per tutta la società.

Già nel 2018 le proteste dei gilet gialli erano state scatenate da un aumento delle tasse sul gasolio (che pesano soprattutto sui redditi bassi e sulle comunità rurali) annunciato pochi mesi dopo la riduzione della tassazione sul capitale e sui patrimoni.

Se oggi Macron si guarda bene dal parlarne, tutte le sue scelte in materia fiscale, in particolare il rifiuto di mettere a contribuzione le fortune colossali accumulate in questi anni aumentando la progressività del sistema fiscale, sembrano indicare che la teoria dello sgocciolamento rimane il suo quadro di riferimento.

Classi medie allo stremo

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Il problema, non solo francese, è che le classi medie sono allo stremo. Il famoso "grafico dell’elefante" di Branko Milanovic racconta la storia, nota a chi si occupa di disuguaglianze, delle classi medie e inferiori dei paesi avanzati che sono le grandi perdenti della globalizzazione, schiacciate tra i paesi emergenti in ascesa e le élites globali sempre più capaci di accaparrare rendite e di eludere il fisco.

Le crisi a ripetizione dell’ultimo decennio hanno contribuito a creare quella che Julia Cagé chiama «crisi del potere d’acquisto»: i salari stagnanti, la disoccupazione, la precarietà del lavoro, l’austerità che ha ridotto la copertura dei servizi pubblici, e infine l’inflazione; in queste condizioni, chiedere ai soliti noti di lavorare anche solo qualche mese di più è considerato ingiusto e inaccettabile.

Il rischio è che le scelte di Macron ipotechino il futuro dei francesi: le vicende di questi giorni stanno aprendo un’autostrada verso l’Eliseo per Marine Le Pen.

Il paradosso è che i partiti sovranisti, pur cercando di sottrarsi al gioco della competizione globale, replicano su scala nazionale i meccanismi globali che hanno portato all’aumento della disuguaglianza.

Si pensi all’insistenza in Italia sulla flat tax e su altre misure regressive il cui sbocco finale non può che essere la riduzione delle entrate fiscali e quindi un’ulteriore riduzione del perimetro dello stato sociale. L’estremismo sovranista vince con la promessa di proteggere le classi medie dal pericolo neoliberista, salvo poi lasciarle in balia degli stessi meccanismi sociali ed economici che le hanno impoverite. Per questo non può e non potrà essere la soluzione.

Quello che vediamo in Francia non è la protesta di un popolo di fannulloni assistenzialisti che si rifiutano di lavorare, né un problema di ordine pubblico; ma l’esasperazione delle classi medie che rimettono in discussione un contratto sociale calpestato per decenni dalle élite. Questo non potrà non vedersi nelle urne, prima o poi.  Evitiamo quindi di voltarci dall’altra parte, la France c’est nous.

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