A un anno dall'invasione dell'Ucraina e dall'inizio di un conflitto armato che nessuno sa come fermare una cosa l'abbiamo imparata: la variabile indipendente è la guerra, non la pace. Siamo fermi a Eraclito, filosofo greco di 2500 anni fa: «Pólemos è padre di tutte le cose».

L'umanità sa fare la guerra, ne ripete automaticamente riti e parole: da entrambi i fronti romba il cannone e il condottiero inneggia alla vittoria che riparerà il sanguinoso torto subito. Chi pensa che tutto questo sia una follia è tacciato di tradimento e intelligenza col nemico. Si è sempre fatto così, la pace è bella ma impossibile se qualcuno ti aggredisce. E quindi armiamoci per vincere la guerra, fingendo di non sapere che, nella migliore delle ipotesi, la sconfitta del nemico prepara la prossima guerra.

La rottura dell’illusione

L'umanità eurocentrica alla quale apparteniamo si è illusa per quasi 80 anni di essersi vaccinata dalla follia della guerra, ha creduto di aver imparato la lezione dopo i 68 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale. Ha coltivato l'idea che la variabile indipendente, l'imperativo categorico fosse la pace. In realtà in questi 80 anni gli eserciti hanno continuato ad armarsi, la pace è stata affidata alla forza dissuasiva degli arsenali e all'efficienza di eserciti che non hanno mai smesso di allenarsi in piccoli e grandi conflitti regionali.

Come dimostra la vicenda ucraina, l'idea che la pace sia il risultato di una paziente e onesta composizione dei conflitti e della volontà di affrontare tempestivamente e in profondità controversie dalle radici secolari non ha fatto un passo avanti. Proprio perché la vicenda ucraina non è stata disinnescata efficacemente negli anni passati la guerra è diventata inevitabile. E siamo ancora fermi all'idea che la guerra, se inevitabile, è giusta.

Basta un codicillo un po' tonto («C'è un aggressore e un aggredito») a squalificare l'idea di ricostruire la pace come un'illusione di anime belle o, peggio, come cavallo di Troia della propaganda nemica alla quale si prestano i soliti utili idioti o, peggio, i traditori.

Il concetto è semplice: basta che un paese decida di fare la guerra e tutti gli altri si mettono a combattere, in base al principio morale secondo cui bisogna essere coraggiosi e non vigliacchi, e al dogma realistico per cui i valori europei di pace e democrazia vanno difesi con i missili. Il passaggio successivo è la retorica bellicista secondo cui il popolo ucraino vuole la guerra perché preferisce la vittoria alla resa. Così come il popolo russo sarebbe contento di mandare i suoi ragazzi a morire per far contento il dittatore.

Escalation continua

Tre mesi fa il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore americano, ha fatto la contabilità della guerra: 100mila soldati russi morti o feriti, altrettanti dalla parte ucraina. Numerosi osservatori occidentali stimano che il numero dei morti russi sia molto superiore e qualcuno si spinge a credere che Putin sia alle corde. Il numero esatto dei morti è top secret perché scoraggerebbe la truppa e questa astuzia strategica consente di nascondere opinione la dimensione reale della follia.

Nello stesso tempo però si crede che continuando ad armare l'Ucraina si arrivi alla sconfitta militare di Putin, cioè a metterlo alle strette e costringerlo a ritirarsi e a trattare. La Russia evoca l'uso dell'atomica, l'occidente crede che non ne avrà il coraggio. E si va avanti nella cosiddetta escalation.

In questo anno di guerra l'Onu ha accertato 8.006 morti civili in Ucraina (di cui 487 bambini) e 13.287 feriti. Ma si teme che il bilancio reale sia almeno il doppio o più. Sono tanti? Sono pochi? Si tratta di un prezzo accettabile per la difesa della libertà dell'Occidente? Nello stesso periodo l'Italia ha contato 34 mila morti di Covid, quindi abbiamo più perdite noi per il Covid che gli ucraini per la guerra.

Ma questo dimostra solo che la contabilità dell’orrore è inutile perché non sappiamo ponderare il numero dei morti, e perché la conta non considera che da un anno anche ai vivi è stata sequestrata la vita. C'è una domanda che la retorica di questi mesi vieterebbe: c'è più egoismo nell'invocare la resa di Kiev (per salvare i propri interessi economici e la propria tranquillità) o nel lasciare che la vita degli ucraini continui a essere massacrata in vista della vittoria sul criminale di guerra? E siamo sicuri che il sentimento prevalente tra gli ucraini sia quello rappresentato degli esuli che si affacciano ai nostri tg per chiedere armi e ancora armi e considerano ogni ipotesi di cessate il fuoco una coltellata alla schiena?

La lingua dell’orrore

L'orrore è nel linguaggio. «Il nostro destino è vincere», proclama il presidente ucraino Volodymyr Zelensky col tono dei dittatori di una volta. La premier italiana Giorgia Meloni è perfettamente sintonizzata: «Le sorti dell'Unione europea e delle democrazie occidentali passano anche per la vittoria dell'Ucraina (...) e una sconfitta dell'Ucraina altro non rappresenterebbe che il preludio di una possibile invasione di altri Stati europei».

Tutto questo è stato già scritto nel 1941 da Stefan Zweig, scrittore ebreo di Vienna in fuga dalla persecuzione hitleriana, in una spietata e preziosa ricostruzione del clima culturale in cui esplose non la seconda ma la prima guerra mondiale: un testamento spirituale lasciato al mondo appena prima di suicidarsi.

Prima la sottovalutazione del problema: «In fondo, sapevamo tutti da anni come funzionavano questi conflitti diplomatici; all’ultimo momento, prima che la situazione fosse definitivamente compromessa, venivano sempre risolti nel migliore dei modi. Perché non avrebbe dovuto accadere lo stesso anche in quell’occasione?». Poi, quando le armi cominciano a sparare, l'accettazione di una guerra inevitabile e giusta: «L’iniziale sgomento di fronte a una guerra che nessuno aveva voluto, né i popoli, né i governi, una guerra che i diplomatici si erano involontariamente e maldestramente lasciati sfuggire di mano, si era trasformato in un repentino entusiasmo».

Subito dopo si afferma l'idea che la colpa è dei nemici: «Se dunque era scoppiata una guerra, ciò poteva essere accaduto soltanto contro la volontà dei propri uomini di stato; la colpa non era sicuramente loro. Anzi, nessuno in tutto il loro paese ne aveva la minima colpa: i criminali, i guerrafondai, dovevano per forza essere dall’altra parte del confine. Sguainare la spada contro un nemico crudele e perverso, che senza la minima ragione assaliva la pacifica Austria, la pacifica Germania, era dunque da considerarsi legittima difesa».

Propaganda e calunnie

Infine arriva il fanatismo: «Gli scrittori giurarono solennemente di non voler più intrattenere rapporti culturali con un francese o con un inglese, giungendo anzi fino al punto di negare che una cultura inglese o francese fosse mai esistita. In confronto allo spirito tedesco, all’arte tedesca, ai costumi tedeschi, tutto era insignificante, privo di valore. Ben più vergognoso fu il comportamento degli studiosi e degli eruditi: i filosofi non seppero far altro che proclamare la guerra un "lavacro d’acciaio" dal quale i popoli sarebbero usciti temprati e che avrebbe scongiurato il rischio di un fatale indebolimento delle loro forze».

E per alimentare il fanatismo ecco la propaganda: «Le voci più infondate diventavano subito verità certe, la più assurda calunnia veniva creduta. In Germania vivevano decine e decine di persone che giuravano di aver visto con i loro occhi appena prima dello scoppio della guerra automobili cariche d’oro recarsi dalla Francia in Russia; i giornali traboccavano di storie di occhi cavati e di mani mozzate, che in ogni guerra cominciano a diffondersi fin dal terzo o quarto giorno. Quegli ingenui che si facevano propagatori di queste menzogne non sapevano che la tecnica di attribuire al soldato nemico ogni possibile crudeltà è materiale bellico tanto quanto lo sono i proiettili e gli aeroplani e che essa viene regolarmente tirata fuori dai depositi al principio di ogni conflitto». (Stefan Zweig, Il mondo di ieri, 1944).

Dopo cento anni ripetiamo lo stesso copione come se fosse dettato da una legge di natura. Stare dalla parte dell'aggredito, difendere la debole Ucraina dalla prepotenza russa. Tutte cose apparentemente ovvie, ma con una conseguenza incontrollabile: l'unica via d'uscita dalla guerra è la guerra con un solo obiettivo accettabile, la sconfitta militare della Russia. Eppure sappiamo che la vittoria militare sarebbe solo l'inizio di una nuova stagione di conflitti.

Ce l'ha insegnato l'economista John Maynard Keynes che nel 1919 partecipò per conto della Gran Bretagna alla conferenza di pace di Parigi e si dimise venti giorni prima della firma del Trattato di Versailles. Subito dopo affidò al breve saggio Le conseguenza economiche della pace la sua micidiale profezia: «Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere. Niente potrà allora ritardare a lungo quella finale guerra civile, rispetto alla quale gli orrori della passata guerra tedesca svaniranno nel nulla, e che distruggerà, chiunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione». Vent'anni dopo la storia ha presentato il conto: una pace sbrigativa dopo una guerra che era costata 17 milioni di morti ha preparato il terreno alla nuova guerra da 68 milioni di morti.

La prossima guerra è già nelle parole

Eppure oggi si guarda all'ultima guerra mondiale con nostalgica fierezza, in fondo, si dice, il mondo libero ha sconfitto Hitler. Che però, prima di suicidarsi nel bunker, ha potuto uccidere 25 milioni di russi e sei milioni di ebrei, per tacere degli altri. E comunque non è stata l'ultima guerra mondiale, adesso lo sappiamo: la prossima non è ancora scoppiata tecnicamente ma è già nelle parole dell'occidente.

La guerra vittoriosa, che gli stessi vertici militari americani ritengono impossibile, è supportata da un armamentario di argomenti illogici. Un solo esempio. A Kiev Giorgia Meloni ha fatto questa affermazione: «Mi ha ricordato la nascita dello Stato italiano, presidente Zelensky. Perché c'era un tempo nel quale si diceva che l'Italia come nazione non esistesse e che l'Italia fosse semplicemente un’espressione geografica. Poi arrivò il Risorgimento italiano e l’Italia dimostrò di essere una nazione. È un po’ simile a quello che accade a voi oggi: che qualcuno riteneva che sarebbe stato facile piegare l'Ucraina, perché l'Ucraina non era una nazione, ma con la capacità che avete avuto di battervi, di resistere, voi avete dimostrato di essere una straordinaria nazione».

Questa ricostruzione della storia italiana è lunare. L'unificazione italiana è stata realizzata dal Regno di Sardegna attraverso occupazioni militari e annessioni con plebisciti, assomigliando quindi più all'operazione di Putin sul Donbass che alla resistenza ucraina. E l'Italia era davvero un'espressione geografica, secondo la formula coniata dal cancelliere austro-ungarico Klemens von Metternich, tanto che nel 1861 non più del 10 per cento della popolazione parlava l'italiano. E non le piccole guerre del Risorgimento hanno reso l'Italia una nazione, semmai decenni di silenzioso lavoro dell'esercito di maestri elementari pagati dallo stato, i veri eroi nazionali.

È solo un esempio, appunto, di perdita del senso. Si sostiene che la guerra deve continuare con un argomento apparentemente lineare. L'Ucraina è stata aggredita e ha diritto di difendersi fino a riprendersi i territori occupati dalla Russia, che per Zelensky comprendono quelli invasi un anno fa ma anche la Crimea.

Quindi l'unica possibilità di pace è che Putin accetti di tornarsene a casa a mani vuote o vuotissime, cosa altamente improbabile. A chi ipotizza che Zelensky rinunci a qualcosa per avere la pace si ribatte che sarebbe un'umiliazione inaccettabile, una resa all'aggressore che vogliono i pacifisti occidentali, più attenti alle loro bollette del gas che alla libertà del Donbass. Come se la pace non fosse soprattutto nell'interesse del popolo ucraino, il quale, secondo la retorica bellicista, dopo un anno sotto il tiro dei missili russi sarebbe disponibile a continuare così per chissà quanti anni pur di non arrendersi al prepotente.

La guerra divide i vicini di casa

Non solo. Illudersi che il sacro lavacro della guerra rinsalderà l'identità nazionale ucraina non tiene conto che la guerra semina odio sul terreno che attraversa. Noi occidentali fatichiamo a capire in che misura il Donbass è popolato da russi o da ucraini, e nemmeno gli interessati lo sanno bene. Normalmente è la guerra a dividere, a portare odio tra vicini di casa, come insegna l'esperienza della ex Jugoslavia. Comunque finisca questa guerra, seguiranno per l'Ucraina decenni infernali segnati da una guerra civile strisciante che sarà la guerra ad aver causato.

Se si prova a smontare la retorica (aggredito e aggressore, coraggio e vigliaccheria, equivalenza tra pace e resa a Putin) rimane una sola logica, l'imperativo della guerra comunque. Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, 93 anni, ha posto una questione stringente.

Se è vero che Putin non manifesta alcuna disponibilità a trattare, è anche vero che gli alleati dell'Ucraina hanno commesso un errore, non dichiarare dall'inizio gli obiettivi del sostegno militare a Zelensky: «Questa scelta ha lasciato aperta la prospettiva [che si puntasse] a un cambio di regime a Mosca, che è risultata inaccettabile per Putin. Al contrario, dichiarare l'obiettivo di ripristinare lo status quo ante al 23 febbraio 2022 avrebbe facilitato il percorso verso il negoziato». Ha invece prevalso, con tutta evidenza, la volontà di entrambe le parti di modificare i rapporti di forza sul terreno fin dove possibile, per imporre al nemico un negoziato in condizioni di debolezza.

Così, mentre è considerato tradimento parlare di pace, rimangono i fatti della guerra. L'1 dicembre 2021, tre mesi prima dell'attacco russo all'Ucraina, il segretario di Stato americano Anthony Blinken dichiara di avere le prove che Putin sta pianificando una possibile aggressione militare all'Ucraina. «Non sappiamo se Putin ha preso la decisione di invadere, ma noi dobbiamo essere preparati a tutte le evenienze». Sarà un caso, ma proprio da quel giorno le azioni dei grandi produttori di armi americani spiccano il volo. Negli 86 giorni trascorsi fino al 24 febbraio 2022, giorno di inizio della guerra, le borse di tutto il mondo tremano per la paura della guerra ma le azioni Northrop Grumman guadagnano il 28 per cento, le Lockheed Martin il 22 per cento, le Raytheon il 21 per cento, le General Dynamics il 15 per cento.

Nello stesso periodo l'indice Dow Jones perde l'1,5 per cento. Anche l'italiana Leonardo, nel suo piccolo, partecipa alla festa. Tra l'inizio di dicembre e il 24 febbraio seguente le sue azioni guadagnano il 58 per cento, mentre l'indice della borsa di Milano Ftse Mib perde il 5 per cento. Non bisognerebbe mai dimenticare che in una guerra come quella dell'Ucraina i paesi Nato difendono la democrazia ma anche i bilanci delle proprie fabbriche di armi e in generale il proprio Pil.

Il business sbagliato

Il punto non è tanto che la guerra sia un grande business, argomento da moralisti e anime belle, ma che in questo momento è un business sbagliato. Insieme al primo anniversario della guerra in Ucraina stiamo celebrando il terzo del Covid. Già, la pandemia. Sembra passato un secolo dalle discussioni di allora.

Nel 2021, poche settimane prima che salisse la temperatura della crisi Ucraina, si discuteva di quanti vaccini l'occidente ricco dovesse donare ai paesi più poveri, non solo per generosità ma anche per bloccare la pandemia ed evitare che facesse il giro del mondo e ci tornasse in casa. Ci si accapigliava su qualche miliardo di euro di spesa totale. L'Italia ha donato 45 milioni di dosi per una spesa massima stimabile in un miliardo. Per la guerra in Ucraina il Congresso degli Stati Uniti ha stanziato finora 113 miliardi di dollari, l'Unione europea 48 miliardi di dollari.

L'altro fatto sconcertante è che durante la fase acuta della pandemia gli scienziati hanno spiegato, e i politici apparentemente capito, che l'umanità doveva prepararsi a futuri e ravvicinati attacchi di virus, a malattie infettive sempre più insidiose. E che per non farsi trovare impreparati di fronte alle nuove minacce (e si usava la parola guerra) occorrevano massicci investimenti sui vaccini e sui sistemi sanitari pubblici che, nella guerra al coronavirus, si erano dimostrati più efficienti di quelli privati.

Di tutto questo ci si è dimenticati di colpo. Nell'ultimo anno i governi occidentali hanno deciso un consistente aumento delle spese militari. Di sanità pubblica non si parla più. Di transizione ecologica non si parla più. Di crisi del capitalismo, del peso sempre più insopportabile delle diseguaglianze non si parla più. Nella guerra alle pandemie ci siamo arresi. Nella guerra al cambiamento climatico ci siamo arresi. Dicendo che è colpa di Putin, per la sicurezza dei nostri figli compriamo armi, con naturalezza, e chi prova a obiettare non ha capito niente della vita, o lavora per il nemico. In pratica siamo tornati di colpo indietro di 100 anni.

La guerra ormai domina il discorso pubblico non solo in termini politici ma anche in termini di sviluppo futuro dell'economia. La Banca Mondiale ha fatto una prima stima di 350 miliardi per la ricostruzione dell'Ucraina, avvertendo che il conto definitivo sarà vicino ai 700 miliardi. Un grande affare che Meloni nella sua visita a Kiev ha brutalmente prenotato: «C’è un know-how che le imprese italiane, che le eccellenze italiane possono offrire: lo metteremo tutto a disposizione perché l'Italia intende giocare un ruolo da protagonista nella ricostruzione, da oggi, di questo paese».

E perché non rimanesse margine di equivoco ha sottolineato che per l'Ucraina si prepara un futuro radioso, simile a quello che è toccato all'Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale: «Il nostro ultimo dopoguerra è stato un periodo di grande crescita e di sviluppo. Sono quelli anni che noi chiamiamo “il miracolo Italiano”, sono gli anni che hanno fatto dell'Italia una delle più grandi potenze industriali e la nazione che è oggi. Ecco, io sono certa che nei prossimi anni noi potremo parlare anche di un miracolo ucraino». Chissà quanto sono felici gli ucraini di questa chance miracolosa, l'occasione di dover ricostruire da zero il loro paese distrutto. Dopo cento anni siamo ancora alla guerra come "lavacro d'acciaio".

© Riproduzione riservata