A metà del Settecento la fiducia nella ragione era tale da teorizzare battaglie dove non si sarebbe più ucciso nessuno. Avrebbe vinto il Generale capace di manovrare meglio sul campo, mentre l’avversario si sarebbe arreso senza sparare riconoscendone la manifesta superiorità. Ragionamenti che si sgretolavano ai primi colpi di cannone: i conflitti tra i due sovrani più illuminati dell’epoca, Federico II di Prussia e Maria Teresa d’Austria, si protrassero per 23 anni e furono la causa di almeno 20mila morti.

Tre secoli dopo, le guerre continuano a mostraci le loro contraddizioni. Un anno dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sono cambiati i rapporti di forza e le aspettative, ma non il fatto che l’occidente sia alle prese con una immutabile impasse concettuale. Anche noi, in fondo, abbiamo cercato di razionalizzare la guerra inquadrandola alla luce di un principio universale: quello del diritto internazionale. Abbiamo deciso di aiutare senza riserve chi quel diritto lo aveva visto schiacciato dai cingoli dei carri armati.

Ma farlo ci ha costretti a porci una domanda lacerante: è per noi più importante la pace o tutto ciò che in nome del diritto sentiamo di dover rifiutare, dall’aggressione di uno stato sovrano, al tentativo di rovesciarne il governo democraticamente eletto, fino ai crimini contro l’umanità?

Un dilemma angosciante

È un dilemma che percepiamo come angosciante, perché in gioco non c’è soltanto l’integrità di un territorio che si affaccia sul nostro giardino di casa, ma l’integrità concettuale e valoriale che diamo all’ordine del mondo. Nel diritto internazionale vengono assunti a valori universali i principi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, ispiratori delle costituzioni occidentali sbocciate proprio sulle ceneri dell’Europa devastata dalla guerra. Non stupisce che il pensiero di andare contro queste regole ci sgomenti: non si tratta solo di infrangere una prassi giuridica e a discapito della sorte dell’Ucraina, ma di tradire gli ideali su cui abbiamo costruito la nostra società.

L’angoscia deriva dal nostro percepire un paradosso di fondo: da una parte esigiamo l’applicazione perfetta dei principi a cui affidiamo la conservazione del nostro ordine, dall’altra questa stessa intransigenza rischia di creare una situazione che potrebbe disgregarlo.

Un paradosso che Hegel si era trovato ad affrontare già qualche anno dopo le guerre tra Prussia e Austria rivelatesi molto più cruente di una partita a scacchi. Il filosofo aveva lodato la Rivoluzione francese come «l’Aurora della libertà», ma poi si era trovato a fare i conti con il Terrore, che della libertà ne era il tramonto. Nella paura di perdere l’ordine ideale che si erano dati, i giacobini avevano preteso un’applicazione così rigida dei loro principi da finire per condannare ogni imperfezione, comprese le loro. La ricerca del massimo ordine aveva prodotto il massimo disordine… e la testa di Robespierre in un cesto.

Uscire dal dualismo

Sembra dunque impossibile scegliere tra la perfezione della ragione e l’imperfezione della nostra umanità. Tanto più che la natura non fornisce verità assolute, come invece fa la religione: Dio può anche concedere il perdono senza per questo essere meno onnipotente. Noi no: la legge che ci siamo dati è così radicata nella nostra storia e nella nostra morale che non possiamo derogarla senza disgregare i fondamenti della nostra società, ma assecondarla fino in fondo può portare allo stesso drammatico risultato. 

È un’impasse senza soluzioni, ma lo stesso Hegel ci ricorda che almeno una facoltà ci rimane: riconoscere la contraddizione, uscire dalla logica dualistica e guardare in faccia il paradosso. Chissà che così non si riesca a trovare spazi di immaginazione anche tra le fratture di questo conflitto. Il sogno di sopravvivere dell’uomo spesso si è dimostrato più forte della logica.

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