Secondo gli impegni presi durante la prima campagna elettorale di Barack Obama, il centro di detenzione di Guantánamo avrebbe dovuto essere chiuso entro il primo anno della sua presidenza, ossia nel 2010.

Invece, tredici anni e quattro presidenze dopo, è ancora aperto e, con ogni probabilità, lo resterà anche sotto la settima presidenza.

L’11 gennaio 2002, ormai 22 anni fa, a Guantánamo entrarono i primi detenuti sospettati di terrorismo internazionale: ammanettati, incatenati, inginocchiati, incappucciati e con addosso tute arancioni.

Quel giorno s’inaugurò il vocabolario della “guerra al terrore”: quegli uomini, tutti musulmani, erano “combattenti nemici” - e non prigionieri di guerra protetti dalle Convenzioni di Ginevra - che dovevano essere sottoposti a “tecniche d’interrogatorio rinforzate” per ottenere informazioni d’intelligence senza le salvaguardie giuridiche previste dal diritto degli Stati Uniti.

Già, perché quel centro di detenzione non era in territorio statunitense, bensì a Cuba.

Dal 2002, a Guantánamo sono passati 780 uomini (219 afgani, 134 sauditi e 115 yemeniti, gli altri di 42 altre nazionalità), minorenni inclusi, presi per lo più in Afghanistan in un’enorme e lautamente ricompensata pesca a strascico organizzata dai servizi segreti pachistani, ma catturati anche altrove in giro per il mondo, sottoposti alle “extraordinary renditions” (trasferimenti da una prigione all’altra senza alcuna supervisione giudiziaria) dopo aver passato periodi di tempo in sparizione forzata in carceri segrete, anche in Europa.

Guantánamo entra nel suo ventitreesimo anno di attività con ancora 30 detenuti al suo interno. Undici sono stati accusati di crimini di guerra: uno è stato condannato, gli altri sono sotto processo da parte delle commissioni militari insediate nel centro di detenzione. Tra loro c’è Khalid Sheikh Mohammad, autoproclamatosi la mente degli attacchi alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001.

Altri tre sono detenuti, senza accusa né processo, in quanto particolarmente pericolosi. Dei 16 restanti, infine, è stato previsto il trasferimento in un paese terzo, ma gli accordi di sicurezza devono ancora essere perfezionati.

Il bilancio di oltre due decenni di maltrattamenti e torture, di habeas corpus negato e di processi in corte marziale è, dal punto di vista della giustizia, magrissimo.

Le commissioni militari incaricate di processare i sospetti terroristi detenuti a Guantánamo hanno prodotto la miseria di nove condanne, tre delle quali vengono attualmente scontate all’interno del centro di detenzione.

Quasi il 90 per cento delle persone passate per Guantánamo non è mai stato processato: oltre 500 detenuti sono stati trasferiti in paesi terzi sotto le presidenze Bush, circa 200 sotto quelle di Obama, uno sotto la presidenza Trump e sei sotto quella di Biden. Altri nove non sono mai stati processati perché si sono suicidati.

Il danno fatto ai diritti umani, invece, è stato enorme.

Attraverso Guantánamo, gli Usa hanno legittimato la detenzione senza accusa né processo in nome della presunta minacciosità di un individuo. Hanno perfezionato il sistema della tortura, arruolando medici, giuristi e psicologi per “individuare i punti deboli del nemico”, aggredendone l’onore e il pudore. A quel sistema hanno preso parte persino gruppi musicali, ben contenti di mettersi a disposizione per le sedute di tortura in cui ai detenuti incatenati venivano fatti ascoltare per ore nelle cuffie, col volume al massimo, i loro brani.

C’è poi stata la “guantanamizzazione” dei centri di detenzione. Il primo direttore di Guantánamo Bay, il generale Geoffrey Miller, ha poi diretto il carcere statunitense di Abu Ghraib, in Iraq: quello reso tragicamente famoso dalle fotografie di un detenuto trasformato in albero di Natale e di prigionieri nudi e impilati gli uni sugli altri.

Guantánamo è diventato anche sinonimo di negazione completa dei diritti umani: ad esempio, è chiamata “la Guantánamo d’Inghilterra” la prigione di massima sicurezza dov’è detenuto Julian Assange.

Guantánamo è stato anche orrendamente imitato dai gruppi armati islamisti, nei video delle esecuzioni dei loro ostaggi in tuta arancione.

Infine, il messaggio perverso che Guantánamo ha cercato di trasmettere al mondo è che per avere più sicurezza occorre avere meno diritti. Anche quando, finalmente, quel centro di detenzione verrà chiuso, il messaggio che avrà lasciato in eredità resterà, anche qui in Italia, estremamente attuale.

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