Sull’eterno scontro tra forma e sostanza abbiamo da sempre assistito a grandi divisioni, alla formazione di scuole di pensiero, a visioni inconciliabili sull’essere delle cose. Spesso, quando analizziamo la formazione di documenti internazionali, sono la forma e il percorso che ha portato alla loro approvazione a rivelare più del testo finale.

Sembra essere questo il caso del tanto atteso rapporto dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, sullo stato dei diritti umani in Xinjiang. Da anni numerosi esperti, organizzazioni non governative e studiosi hanno sottolineato la gravità della situazione cinese.

Alcuni paesi hanno esplicitamente accusato la Cina di genocidio. Da mesi però il rapporto dell’Alto commissario Bachelet restava chiuso nei cassetti delle Nazioni unite. Si è deciso di pubblicarlo, con il favore delle tenebre, undici minuti prima della scadenza del suo mandato. Quasi una fuga, che pare essere poco onorevole, che rivela le sempre maggiori difficoltà delle Nazioni unite nella gestione di dossier difficili come quello cinese.

La risposta di Pechino

Pechino, fino all’ultimo minuto, ha sottolineato la sua contrarietà rispetto alla pubblicazione del rapporto. Quarantotto pagine in cui si conclude che in Xinjiang sono state realizzate «serie» violazioni dei diritti umani contro gli uiguri e altre minoranze in nome della difesa contro il terrorismo.

In particolare, il rapporto evidenzia come il sistema di leggi antiterrorismo messo in piedi dal Partito comunista cinese sia vago e presti il fianco a una utilizzazione discriminatoria e strumentale. Si sottolinea inoltre come le violazioni dei diritti umani di Pechino «potrebbero costituire dei crimini internazionale, in particolare dei crimini contro l’umanità».

Il governo cinese ha offerto una risposta di 131 pagine in cui si critica il rapporto di Bachelet. Per Pechino il rapporto sarebbe fondato su «disinformazione e bugie fabbricate da forze anti cinesi». Inoltre, il ministero degli Esteri cinese ha sottolineato come l’ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani sia ormai «stato ridotto al ruolo di sicario e complice degli Stati Uniti e dell’occidente».

Che fare?

Il futuro delle azioni da intraprendere sulla base del rapporto resta, a oggi, molto incerto. Alcune misure per far fronte alle critiche delle Nazioni unite dovrebbero essere prese dal governo di Pechino. Quale sarà il livello di collaborazione che sarà possibile ottenere? Per quel che riguarda l’azione delle organizzazioni internazionali toccherà verificare quali iniziative vorrà prendere il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, l’organismo intergovernativo responsabile della protezione e della promozione dei diritti umani nel mondo. Di questo organismo fa parte anche la Cina. Che peso avrà questa situazione sul futuro delle possibili iniziative in seno alle Nazioni unite?

La vicenda relativa al rapporto sullo stato dei diritti umani nello Xinjiang costituisce l’ennesimo capitolo della crisi, ancora non affrontata, delle Nazioni unite come istituzione e dell’ordine internazionale liberale.

Da una parte le istituzioni, che per anni hanno retto l’ordine internazionale liberale, non appaiono più in grado di reagire alla secessione degli ordinamenti autoritari che si vanno consolidando in numerosi paesi del mondo. Dall’altra, la crisi dell’ordine internazionale liberale spinge alla ridefinizione della concezione globale dei diritti umani e dei rapporti fra individuo e poteri pubblici.

Come ha ricordato Eric Posner, quella in corso è una competizione per la ridefinizione del contenuto e del significato dei diritti su scala globale. La storia, dunque, è ben lontana dall’essere finita. Può anzi capitare di ritrovarsi in un campo di rieducazione politica, di vedersi obbligati ad abortire o di essere arrestati senza motivo in nome della coesione, dell’armonia sociale e della pubblica sicurezza. E si può anche avere il coraggio di sostenere che questi siano gli standard internazionali da difendere. Questo non per un esercizio di retorica, ma per la difesa dell’autoritarismo e del potere.

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