Se c’era un dubbio, o una speranza, che almeno sul piano internazionale questo governo avesse smesso i panni più ribaldi del sovranismo e dell’antieuropeismo le accuse della rinnovata coppia Meloni e Salvini contro il commissario europeo Paolo Gentiloni fugano ogni dubbio.

I due leader della maggioranza esprimono una drammatica incomprensione o forse, ancor peggio, una strumentalità piccina nei confronti delle logiche e del funzionamento delle istituzioni europee. Abituati come sono a insediare cognati e famigli vari nelle posizioni di potere affinché seguano scrupolosamente le loro indicazioni, credono che allo stesso modo si debba adeguare un commissario europeo. Bastava scorrere i documenti dell’Unione europea per rendersi conto che non funzionano così le istituzioni dell’Ue. L’articolo 17 del Trattato specifica infatti che «i membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo». E, nel caso lo facessero, incorrerebbero in una serie di sanzioni morali prima, e politico-istituzionali poi. Chi ha strepitato per anni contro la burocrazia sovietica dell’UE e gli interventi dell’Unione a difesa delle libertà civili «calati brutalmente come una spranga di metallo sulle popolazioni ungheresi e polacche» secondo il soave commento di Giorgia Meloni, non riesce a perdere l’imprinting originale.

La realpolitik adottata in questi mesi dal governo, e dal presidente del consiglio in primis, si infrange contro il richiamo della foresta. Il cuore dei Fratelli d’Italia e dei leghisti non batte certo per Bruxelles. Là si annidano ancora i nemici della nazione. Un vero patriota non conosce altro dovere che difendere gli interessi nazionali a dispetto dei doveri per cui è stato chiamato a svolgere la sua funzione super partes.

La vista corta e provinciale del governo , nonostante la presenza di un peraltro silente ex-presidente del parlamento europeo come Antonio Tajani, impedisce di comprendere come funziona un apparato complesso e stratificato come l’Unione. Con la conseguenza di mettere in pericolo i nostri legittimi interessi, che non si fanno certo bersagliando di critiche il “proprio” commissario. Anzi, proprio questo atteggiamento aumenta diffidenze e sospetti presso le altre cancellerie. Paesi abituati a conformarsi alle regole dettate da Bruxelles, anche quando indigeste, non possono che irritarsi nel vedere che viene criticato un commissario perché non si cura degli affanni del proprio paese , magari a dispetto di quelli comunitari.

Dietro queste intemerate si intravede anche una certa strumentalità. Indicare all’opinione pubblica un nemico – in più un esponente del Pd, come oggi non casualmente molte cronache giornalistiche ricordano - riflette una classica modalità comunicativa del populismo che Salvini e Meloni, pur con alcune sfumature diverse, hanno adottato in tanti loro messaggi. Di fronte alle difficoltà del governare diventa automatico additare un capro espiatorio, e Gentiloni è lì, pronto ad essere infilzato dalle accuse di tradimento della patria in pericolo.

Le prime mosse del governo facevano sperare che Meloni avesse appreso qualcosa dal suo predecessore, Mario Draghi, che proprio ieri invocava una Europa più forte e coesa. Una pia illusione. Di cui si sono accorti anche i liberali europei che, su ispirazione di Renew, il partito del presidente francese Emmanuel Macron, hanno, alcuni giorni fa, assunto una posizione molto critica nei confronti dell’Italia parlando di «arretramento democratico e illiberalismo»; ed equiparandola a Polonia e Ungheria.

I sogni di gloria europei della presidente del consiglio stanno svanendo. Per questo parte all’attacco, in maniera veemente e scomposta, calpestando il bon ton istituzionale di casa Bruxelles.

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