C’è una destra illiberale che disprezza lo stato di diritto, calpesta le libertà individuali, e piega la verità scientifica agli interessi del potere. Che questa destra rappresenti una minaccia per la democrazia è opinione comune nel mondo “liberal”. Esiste però, sostiene l’Economist nell’ultimo numero, un pericolo speculare che viene dalla parte opposta dello spettro politico: la «sinistra illiberale».

Cos’è questa sinistra illiberale? Non, come si potrebbe pensare, quella sopravvissuta al crollo delle ideologie novecentesche o le poche formazioni di sinistra che si definiscono “populiste”. L’obiettivo polemico è un altro: è quel mondo di progressisti, presenti in politica, ma anche nel mondo dell’impresa e dell’università, ossessionati dall’obiettivo della «giustizia per i gruppi identitari oppressi» e pronti a realizzarla con i metodi della «cancellazione» delle opinioni contrarie e di chi le sostiene.

Mentre «per i liberali classici la direzione precisa del progresso è inconoscibile», in quanto questo avviene in modo spontaneo, dal basso, con la sola garanzia della limitazione dei poteri, per la «sinistra illiberale» si tratta di usare il potere per produrre cambiamento, nella convinzione che «il vero progresso è possibile solo dopo che si è provveduto a smantellare le gerarchie razziali, sessuali e di altro tipo». Questo significa, per esempio, intervenire con azioni positive, ma anche – ciò che provoca qui l’accusa di illiberalismo – rivendicare cambiamenti a livello di linguaggio e cultura diffusa.

L’etichetta di «sinistra illiberale» è stata accolta con entusiasmo istantaneo dalla stampa di destra del nostro paese, in cerca di formule sempre nuove per ridicolizzare le battaglie femministe, antirazziste o a difesa dei diritti Lgbt. Bisogna chiedersi però se non ci troviamo di fronte a un grande equivoco. Perché se è del tutto corretto – persino ovvio – distinguere i «liberali classici» dagli attori della «sinistra», non è affatto chiaro perché i secondi sarebbero una minaccia pari a quella della destra trumpiana o orbaniana, e una minaccia per chi.

Le battaglie per «smantellare le gerarchie» di cui parla il settimanale britannico sono quelle per ridurre le diseguaglianze, per realizzare l’uguaglianza in senso non solo formale (come uguale valore delle differenze) ma anche in senso sostanziale. E questo altro non è che il problema della democrazia costituzionale, con il suo complesso sistema di diritti di libertà e diritti sociali.

È del tutto legittimo che una politica che punta a correggere le ingiustizie economiche e sociali non piaccia ai «liberali classici», votati al «mercato libero» e al «governo limitato». Si può anche comprendere che chi è abituato a parlare da posizioni di privilegio guardi con antipatia ai «metodi» dei gruppi esclusi che rivendicano uguaglianza nei diritti e nel rispetto. Però, la teoria degli opposti estremisti, che equipara le battaglie per la giustizia sociale a quelle della destra populista autoritaria, deve essere decisamente respinta.

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