Veloce come suo solito, alla morte di Toni Negri il ministro Sangiuliano ritira fuori l’etichetta di “cattivo maestro”. Come ha spiegato Gigi Riva su questo giornale, la condanna per cui Negri ha scontato alcuni anni di carcere si reggeva in parte sull’assunzione che, una causa (non unica, ma determinante) delle azioni violente di alcune frange del terrorismo fosse il pensiero di quegli intellettuali che, come Negri, sostenevano l’opportunità di usare la violenza politica come mezzo per cambiare una società ingiusta.

Per la rapina di Argelato (una rapina di autofinanziamento in banca, opera di membri di Potere Operaio), Negri fu condannato come mandante per concorso morale. L’etichetta di cattivo maestro gli fu lanciata addosso da Indro Montanelli, che sostenne di essere disposto a perdonare chi si era macchiato effettivamente di violenza ma di volere invece che i cattivi maestri che avevano ispirato (ma forse sarebbe meglio dire fuorviato) i violenti venissero impiccati.

Nessuno è un ingenuo

A molti anni da questi giudizi e da quelle vicende, in un contesto del tutto mutato, che cosa pensare della questione più ampia, cioè dell’influenza e della responsabilità delle parole e dei pensieri di chi analizza e giudica la realtà politica? C’è una posizione che è diffusa e parrebbe ovvia: negare la responsabilità del presunto cattivo maestro in nome della libertà di pensiero e della distinzione fra pensiero e azione. Chi ha commesso violenza è persona adulta e non un ingenuo in balia di un cattivo maestro. I terroristi non avevano certo bisogno delle istruzioni di un professore. E i professori debbono essere liberi di dire tutto quello cui il loro pensiero li porta, specialmente se si limitano a dirlo, senza passare alle vie di fatto.

Secondo me, lo stesso Negri avrebbe rifiutato questo modo di vedere. È ovvio che l’analisi critica della realtà e la proposta teorica debbono incidere sull’azione: che senso avrebbe, per un pensatore che nonostante la sua evoluzione teorica partiva da Marx, pensare la realtà senza agire per cambiarla, anche col pensiero? E non c’è bisogno di essere marxisti, marxiani o rivoluzionari per augurarsi che l’analisi della realtà politica e le proposte che ne derivano incidano sull’azione politica. E dire che tutti possono dire qualunque cosa equivale a dire che nulla di quel che si dice è importante. Liberare i cattivi maestri dalla responsabilità delle proprie parole può equivalere a renderli irrilevanti, come tacciarli di essere cattivi maestri è un modo per zittirli.

La responsabilità degli esecutori materiali

Ma allora tocca ammettere che delle sue parole Negri era responsabile. Questo non vuol dire però che la sua responsabilità attenuasse quella degli esecutori materiali, come pensava Montanelli, o che fosse sullo stesso piano, come pensavano molti. Ci possono essere gradazioni diverse di responsabilità. Maestro Negri lo è stato, senza dubbio. Cattivo lo era per chi non era d’accordo con lui, e questo è ovvio. Detto più chiaramente: chi incita alla violenza deve assumersi le sue responsabilità, e chi lo ascolta deve ricordarglielo, e fargli accettare le conseguenze della responsabilità.

È una maniera di prendere sul serio il pensiero, di prendersi sul serio. E se si ritiene che la violenza politica non sia mai auspicabile lo si deve dire, come si deve dire se si pensa che ci siano casi in cui invece lo sarebbe, e chiarire esattamente quando e come. Cattivo maestro Negri è stato, per chi lo disapprovava (come chi scrive), per avere proposto la violenza politica come via di mutamento politico, proponendo una strada fuori dal tempo e dalla storia che non portava a niente se non al fallimento e al dolore che ne sono seguiti. Forse gli è mancata, come a molti della sua generazione, la capacità critica di alcuni partigiani, la cui sofferta riflessione sui limiti della violenza viene ricordata da Claudio Pavone nel cap. 7 di Una guerra civile.

Il progresso democratico e una società più giusta non si raggiungono con la violenza, tranne che in rarissimi casi estremi. Ma neanche col quietismo. Le verità sgradevoli vanno dette e le opinioni scomode debbono trovare spazio. Ma la libertà di farlo non può essere licenza. È nell’interesse della verità e della democrazia che le parole abbiano un peso. Che chi nega verità innegabili, offendendo le vittime di varie forme di ingiustizia oppure ostacolando il riconoscimento delle ingiustizie, ne sia riconosciuto responsabile. Che chi approfitta della sua posizione e del suo ingegno per articolare proposte che si rivelano fallimentari e creano dolore debba riconoscere la sua responsabilità e i suoi errori.

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