Mario Monti, l’ex premier tecnico e Mario Draghi, il possibile 30esimo presidente del Consiglio italiano dopo 66 governi repubblicani in 74 anni hanno una frequentazione scolastica in comune: entrambi sono stati allievi delle scuole superiori dei gesuiti. Ma ci sono importanti differenze tra i due che in parte derivano proprio dalle scuole che hanno frequentato. Se Mario Monti, ex preside della Bocconi, è il prodotto dell’istruzione gesuitica dell’Istituto Leone XIII, il secondo è l’allievo dell’Istituto Massimiliano Massimo di Roma, due istituti fondati per forgiare la classe dirigente del neonato Regno d’Italia.

Due mondi molto diversi: quello gesuitico milanese si rifà al ‘500, in terra allora di confine, baluardo estremo del cattolicesimo contro le incursioni dei rappresentanti della Riforma luterana e soprattutto calvinista ginevrina, un movimento che se avesse passato la catena montuosa delle Alpi avrebbe dilagato nella Penisola giungendo fino al centro della cristianità, fino a Roma. Un gesuitismo, quello ambrosiano, ligio alla dottrina cattolica, ma che assume e fa propri i costumi rigorosi dei riformati d’oltralpe. L’orizzonte geografico dei gesuiti lombardi sono infatti le Alpi e ciò che avviene al di là della catena montuosa.

Il gesuitismo romano, invece, affonda le sue radici culturali nel barocco e quindi nel Seicento ed esaspera la teologia cattolica come ad esempio il punto della remissione dei peccati, punto fondamentale di scontro con i riformati. Ma soprattutto i gesuiti romani hanno una visione globale, che spazia oltre gli oceani e guarda al Sudamerica e alla Cina come zone di missione e di estensione della predicazione. Ecco perché Monti ha una visione austera, rigorosa e lo sguardo rivolto soprattutto (anche se non esclusivamente) alle Alpi, mentre Draghi è aperto al mondo come terreno di azione sebbene abbia trascorso un lungo periodo proprio a Francoforte come presidente della Banca centrale europea.

Whatever it takes

Draghi, se l’esito delle consultazioni sarà positivo, potrebbe essere il presidente più atlantista e più europeista dai tempi del trentino Alcide De Gasperi. Draghi, da presidente della Bce, non ha salvato l’euro ma ha salvato prima la Germania da sé stessa e dai suoi demoni e quindi ha salvato l’Europa. Come? Con l’espansione monetaria contrapposta alla austerità dell’ordo-liberismo di Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco che impose la chiusura dei finanziamenti alla Banca centrale greca e tentò di espellere la Grecia dall’euro come monito all’Italia e ai paesi mediterranei.

Senza l’allentamento quantitativo (il quantitative easing) l’euro sarebbe finito nella polvere e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, non avrebbe potuto resistere da sola alle pressanti richieste del potente capo della Bundesbank, Jens Weidmann che chiedeva politiche fiscali austere in tempo di crisi economica.

Il duo formato da Weidmann alla Bundesbank e Schäuble al ministero delle Finanze con l’ossessione del pareggio di bilancio (lo “schwarze Null”, lo “zero nero”), sono il prodotto economico del “manicheismo agostiniano” trasferito nel luteranesimo, dove o sei salvato o sei dannato, o sei debitore o sei creditore senza nessuna intermediazione.

Ma fortunatamente è arrivato il Settimo cavalleria di Barack Obama e del suo segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Gli Stati Uniti, durante la crisi dei debiti sovrani europei, hanno sostenuto politicamente in ogni consesso internazionale, l’azione del presidente della Bce, Mario Draghi, per evitare che la crisi finanziaria europea si avvitasse e che l’euro si frantumasse facilitando il ritorno della Russia in Europa.

Oggi la crisi sanitaria da Covid-19 ripropone il bivio della crisi del 2008: non a caso il quotidiano tedesco Bild ha titolato: Draghi salverà ancora una volta l’Europa? Non parla dell’Italia tanto è chiara alla prospettiva tedesca che la crisi italiana è di dimensione europea e non solo domestica. A Berlino è chiaro che dopo il Trattato di Roma, la parentesi europea a guida francese con Mitterrand e Giscard d’Estaing, la leadership tedesca con il duo formato dal cancelliere Kohl e dalla Merkel, ora la palla torna in campo italiano con Mario Draghi. Ecco perché tutti guardano al governo italiano: perché a Roma si gioca il destino europeo.

 

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