Il prossimo Giorno della memoria, in qualunque modo andrà, sarà un disastro. Non solo per le ragioni descritte e paventate da Davide Assael su queste pagine. E nemmeno a causa della messe di polemiche, manipolazioni, propaganda, che si sta già accompagnando in modo imprevedibile, spesso guasto, al dibattito di storici, intellettuali che in questi giorni abbiamo letto sui giornali. Dibattito anche questo spesso squalificato e strumentale.

Stiamo parlando della sua funzione pedagogica nelle scuole: il senso principale per cui forse il Giorno della memoria è stata istituito dall’inizio degli anni Duemila, in Italia anche prima della decisione dell’Onu.

Lo studio della storia

Il clash terribile, e impossibile da mettere tra parentesi, è certo quello tra la memoria della Shoah con i fatti di questi mesi in Palestina, e soprattutto con la loro esperienza emotiva e il loro racconto. Ma questo era un esito prevedibile ed è un difetto di sistema su cui non pochi hanno riflettuto e scritto negli ultimi vent’anni, anche prescindendo dalla questione israelo-palestinese.

Nel calendario scolastico, anche sulla scorta del Giorno della memoria, è esplosa un’inflorescenza di giornate dedicate a un’educazione civile/civica – che si è immaginata complementare allo studio e al lavoro in classe, soprattutto quello dedicato alla storia – ma che spesso si è mangiata la stessa formazione storica.

Questo è avvenuto per diverse ragioni. Alla drastica riduzione delle ore di storia in moltissimi indirizzi superiori per colpa della riforma Gelmini si è aggiunta l’introduzione di una materia dal contenuto totalmente opaco come l’educazione da tre anni a questa parte, a cui vanno ancora aggiunte le ore di Pcto e di orientamento.

Il risultato è una contrazione dello studio della storia. Può spesso capitare che il Novecento venga trattato con rapidità e approssimazione a scuola, e che si deleghi alle attività intorno al Giorno della memoria la conoscenza della persecuzione e dello sterminio nazista degli ebrei.

Non citiamo nemmeno l’oscena quasi simultaneità con cui è stata istituita dai neonazionalisti la commemorazione del Giorno del ricordo il 10 febbraio, spesso brandita nel discorso pubblico di destra a una sorta di contraltare.

L’aspetto emotivo 

Sempre più frequentemente i miei studenti arrivano al liceo che hanno visto, alla primaria, alle medie, nei vari Giorni della memoria che hanno attraversato in classe, anche tre o quattro volte, La vita è bella di Roberto Benigni, ma non hanno quasi nessuna idea del contesto in cui quelle vicende siano accadute.

L’aver insistito sull’aspetto emotivo, esperienziale, narrativo, l’aver creato un sottogenere editoriale per cui ogni fine gennaio le librerie si riempiono di storie di bambini con i pigiami a righe, ha definito in modo sempre più astratto, alle volte grottesco, la pedagogia dell’assurdo che era il senso del discorso intorno alla Shoah del Giorno della memoria.

Prima che le contraddizioni scoppiassero in modo così doloroso, c’era già nel 1985 chi aveva mostrato come il vero rischio era che la memoria fagocitasse la storia. In modo cristallino Primo Levi in I sommersi e i salvati proponeva un passaggio dalla versione pubblica dei testimoni diretti alla riflessione critica su quell’eredità, superando la dimensione emotiva e esperienziale – rispetto, silenzio, racconto, rito.

Purtroppo lo strumentario teorico dei Sommersi e i salvati, a partire dal concetto di “zona grigia”, non ha travalicato i confini della riflessione filosofica e storiografica. Lo stesso si può dire di testi chiave, scritti sul finire del Novecento come L’era del testimone di Annette Wieworka o La memoria, la storia, l’oblio di Paul Ricoeur. Se ne potrebbero citare molti, anche italiani e più d’intervento come Dopo l’ultimo testimone di David Bidussa o Contro la memoria di Alessandro Piperno. Quale insegnante li ha letti? Quale docente li usa?

Il 27 gennaio è un sabato, molte scuole saranno chiuse, e forse è meglio così. L’anno prossimo ci si può preparare con grande anticipo problematizzando tutte le questioni che la riflessione sulla memoria in generale comporta, prendendo coscienza che trasformare i riti in feticci storici è il modo peggiore per dare senso alla storia delle tragedie.

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