La cronaca ci costringe, purtroppo, a tornare a parlare di antisemitismo. Ed è questo il dato più rilevante, vista la pochezza del protagonista. Ci riferiamo alla denuncia di Liliana Segre, 94enne reduce di Auschwitz, memoria storica della Shoa di questo paese, ai ventiquattro «odiatori», che, via Twitter le hanno rivolto minacce ora sotto la lente delle forze dell’ordine.

Fra i 24, il nome noto è quello di Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, 39enne autore di programmini di cucina, che lui ha sempre scambiato per grandi indagini antropologiche. Grazie al successo televisivo di show come Unti e bisunti e Camionisti in trattoria, Rubini riscuote un discreto successo via Twitter, da dove spara no stop strali nei confronti di Israele.

Una tale accozzaglia di idiozie, pregiudizi, partigianerie acritiche non meriterebbe neppure attenzione, se non fosse, appunto, per la rilevanza del tema. «Ofelè fa el so mestè», «ogni artigiano faccia il proprio mestiere», diciamo a Milano.

E certo non basta ripararsi dietro il solito «allora solo gli esperti possono avere un’opinione», coperta sempre pronta a coprire la propria colpevole ignoranza. A maggior ragione su scenari così intricati, che è impossibile tagliare con l’accetta.

Lasciando da parte Liliana Segre, a cui auguriamo il miglior successo in tribunale per il vergognoso tweet in cui Rubini pare accostare le atrocità di Auschwitz a fantasie sessuali da siti porno, se ben comprendiamo i meandri labirintici della sua mente, scorrere l’account di Chef Rubio ci riporta alla vexata questio, purtroppo molto diffusa anche in ambienti colti e persino specialistici, dell’assimilazione fra antisionismo ed antisemitismo.

Sono la stessa cosa? La risposta è senza ombra di dubbio: sì. La ragione non è nemmeno difficile da capire. Ogni identità ha basi territoriali. Così esistono stati musulmani e cristiani di ogni confessione, buddisti, induisti. Per questo, aggiungo siamo (qui lascio perdere la geopolitica e parlo per principio) tendenzialmente favorevoli ad uno stato curdo e, lasciatemelo dire, ad uno palestinese.

Non si capisce perché l’immagine della Gerusalemme celeste, questa identità astratta che esiste solo nei cieli, dovrebbe essere applicata solo all’ebraismo. L’obiezione, di solito, scatta automatica: ma quelli cristiani sono stati laici, perché la definizione di stato ebraico? A parte che numerose nazioni europee hanno il riferimento alla religione in costituzione ed anche l’Italia, che non lo ha, riconosce uno statuto diverso alla religione cattolica, unica con cui è stato stipulato un concordato invece di un’intesa.

Ma qui non ci interessa la definizione formale, quanto la prassi sostanziale. I negozi chiusi la domenica e non il sabato non dicono nulla sulla provenienza religiosa del nostro paese? E il calendario scolastico o lavorativo?

Lo scrivo nel momento in cui nei centri città compaiono alberi, presepi e luminarie. Di qui si anticipa la seconda obiezione: non c’è alcuna incompatibilità fra ebraicità e democrazia. L’avere un’identità radicata non implica affatto diseguaglianza di diritti davanti alla legge, così come non lo implica l’essere l’Italia uno stato cattolico. Chi conosce Israele, conosce gli sforzi storici della Corte suprema per mantenere questo principio egualitario.

Anticipiamo la terza obiezione: criticare il governo israeliano, come fatto da me stesso in mille e più occasioni e con i più svariati governi, non implica affatto essere antisemiti. L’opinione pubblica israeliana, seppur polarizzata e anestetizzata come nelle democrazie di tutto il mondo, è tra le più vivaci e critiche del pianeta.

Aggiungo una cosa che ai più potrà suonare scandalosa: il sionismo è un esempio straordinario della ricerca di un punto di equilibrio fra identità particolare e valori universali.

Compromesso storicamente riuscito se ha costruito uno stato dove il 20 per cento è musulmano (pensate da noi), dove ci sono moschee, chiese cristiane, drusi e persino templi di Scientology. Proprio questo si imputa al governo appena insediatosi: di non essere abbastanza sionista e spostare l’asticella verso il particolare ebraico.

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