“Regolare Internet” è una questione molto seria, ma di certo non aiuta che l’attenzione degli elettori e, conseguentemente, dei politici che dovrebbero decidere, si distragga su questioni notiziabili, ma campate in aria come l’Internet vietata ai “minori di ...” (al modo dei film scollacciati d’una volta) o la ricaduta delle AI conversative sui posti di lavoro “intellettuali”. Mentre “regolare Internet” significa essenzialmente stroncarne l’attuale concentrazione di potere entro un pugno di algoritmi e aziende americane, profittevoli a se stesse e funzionali (supponiamo) alle agenzie di spionaggio federali (cui sfuggono i cinesi che si spiano da se stessi).

I “rieducatori” dell’Internet ingabbiata

Di questo non parlano i filosofi dei social (ne esistono parecchi e tendono all’aumento) cresciuti nell’Internet che c’è e che aspirano a rendere più accettabile e “morale” moderando (cioè filtrando) i contenuti e negoziando fra politica ed imprese qualche criterio su cui orientare gli algoritmi. Tanto che al popolo degli “attenti al “contenuto” la concentrazione di potere in poche mani gigantesche pare non un problema, ma un vantaggio, perché offre l’interlocuzione con gli algoritmi dei miliardari della Silicon Valley, che in maglietta ed infradito si sperano meno coriacei di quelli dei tempi andati in ghette e tuba.

Peraltro (lo dimostra l’esperienza di vent’anni) il fremito delle discussioni a pro’ della virtù nei contenuti si perde immancabilmente nella fuffa, perché al culmine di tremila anni di cultura è dimostrato che non si possono mappare senza fallo le coordinate spazio-temporali e la sostanza del “buono” o del “malvagio”. Anzi - se non ci siamo persi qualche freschissima revisione del “progresso liberale” - il libero pensiero poggia proprio sul rifiuto di costringere all’oggettivo ciò che è soggettivo per natura. Per non dire del ridicolo intrinseco all’idea di voler spiegare a un algoritmo tutto questo. A contorno, infine, dei moralisti cortigiani si pongono gli alternativisti provinciali che vagheggiano un arcipelago di iniziative pubbliche poggiate su comunità territoriali, viste come i lillipuziani che impaniano i giganti tecnologici.

La caratteristica comune a questi mondi di pensiero e di immaginare un’Internet “ordinata” secondo statuti astratti, mentre s’adattano più o meno all’ordine  che s’è imposto, monopolistico e anglosferico.

La centralità dell’utente sfugge alla gabbia

L’alternativa sta in un’Internet strutturalmente libera, popolata da molti sistemi di ricerca-conversazione-social, quindi pulviscolare e multicentrica. Con centinaia d’algoritmi renitenti ad amalgamarsi nel buon senso dominante e semmai spinti a sfidarlo, per ritagliare postazioni di mercato in un’infinità di nicchie di passioni ed ossessioni.

Pare un’utopia rispetto al peso degli USA e dei bilanci miliardari, ma la luce in mezzo al tunnel sta già nei regolamenti dell’Unione europea che, spinta dall’orgoglio repubblicano della Francia, mostra d’aver capito che le strutture di business e di potere delle Big Tech, con le loro rendite estrattive, concentrate, verticalizzate, vanno spinte, da norme ben mirate, a disaggregarsi da sé sole anzi che perdere il senno cercando d’educarle. Non per caso, il primo, essenziale, chiodo di un’Internet liberata dalla gabbia, costituito dalla “centralità dell’utente”, è stato  piantato già da alcuni anni col Gdpr del 2017, anche se ridotto da garanti e informazione alla inafferrabile tutela della “privacy”.

Centralità dell’utente significa invece, molto più concretamente, il diritto di ogni titolare di account a essere proprietario esclusivo dei propri dati, stipandoli magari nel personale scrigno dello smartphone quando qualcuno (e qui sì che un investimento pubblico avrebbe senso) gli fornirà la relativa applicazione. Dopo di che, dei propri dati messi al sicuro, ognuno farà quello che vuole, compreso consentirne l’impiego in tutto o in parte, a questo o a quello, gratis o a titolo oneroso. Rendendo così quei dati, oggi rinserrati nei server delle Big Tech e fonte dei loro incredibili profitti, disponibili a fornire la base di lancio a qualsiasi start up che fornisca servizi finanziandosi coi ricavi pubblicitari della “pubblicità mirata”. E così, a sbloccare i monopoli, la talpa del mercato potrebbe cominciare a fare la sua parte. 

Europa centro o periferia

In questo panorama appare e scompare, carsicamente, il profilo geopolitico che incombe su Internet, almeno riguardo al mondo Occidentale allargato. Gli Usa ne controllano i dati – via Google, Meta, Amazon, Apple, Microsoft e il codazzo della truppa – e intendono tenerseli nei server posti nel loro territorio e nella propria giurisdizione per tenerci il naso dentro momento per momento e avvalersene sul piano politico, culturale, commerciale e militare. 

L’Alta corte europea l’ha definito un obbrobrio, ma la Commissione e i governi cercano di allontanare il calice che li porta dritti a scontrarsi con l’alleato dominante d’oltre Atlantico facendo finta che, trattandosi di potenza liberale e democratica non possa che far cattivo uso dei dati che ci riguardano.

Ma i dati non sono un bene inerte come l’oro depositato a Fort Knox e incidono a ogni istante sui rapporti di potenza. E dunque l’imbarazzo dei politici europei è facile da capire, ma il punto è che gli elettori europei non li hanno mai autorizzati, né a casa propria né a Strasburgo, a lasciare nei server d’altre giurisdizioni i loro dati. Ecco perché l’Internet Liberata dipende sia dalla centralità dell’utente, che dal verificare se gli stati europei siano centro o periferia. 

© Riproduzione riservata