Il Partito democratico dovrebbe aver imparato la lezione del 25 settembre: le elezioni le vince chi sa sfruttare al meglio regole e alleanze. Il centrodestra ha trionfato soltanto perché ha tenuto insieme tre partiti e tre leader in concorrenza tra loro che a stento si sopportano.

In Lombardia per il segretario del Pd Enrico Letta si prospetta una specie di esame di riparazione: vincere, o almeno far perdere l’avversario, sul territorio e a livello nazionale, oppure inseguire una qualche forma di coerenza tattica che serve soprattutto alla destra.

Il governatore uscente Attilio Fontana, della Lega, rappresenta tutto ciò che un elettore Pd considera agli antipodi: ha gestito il Covid in modo disastroso, ha accumulato patrimoni in Svizzera di cui continua a tacere l’origine, ha combinato pasticci mischiando famiglia e politica (con l’annosa vicenda dei camici).

Ma il Pd non è riuscito, negli ultimi cinque anni, a costruire una candidatura alternativa credibile per la regione più ricca e importante d’Italia.

Si apre ora una crepa imprevista nel fronte della destra con la candidatura di Letizia Moratti: le dimissioni da assessore e vicepresidente lanciano la sua campagna elettorale civica, in opposizione a Fontana.

I voti dei delusi della destra e degli elettori con idee politiche lontane dalla deriva illiberale di Lega e Fratelli d’Italia sono destinati al momento a sparpagliarsi tra Moratti e qualche nome che all’ultimo il centrosinistra troverà (di solito persone degne ma destinate a perdere, tipo Umberto Ambrosoli o Giorgio Gori).

Oppure il Pd potrebbe, diciamo così, turarsi il naso e sostenere Moratti.

La difficoltà è evidente, Moratti è stata una contestata ministra dell’Istruzione e presidente della Rai ai tempi dei governi Berlusconi.

Va però ricordato che, dopo l’effimera parentesi di Giuliano Pisapia, il meglio che il centrosinistra ha prodotto a Milano è l’ex braccio destro di Moratti, cioè il sindaco Beppe Sala. Quindi, l’incompatibilità tra Pd e Moratti è più di etichetta che di sostanza.

Chiaro il problema, dunque, ma altrettanto chiaro il dividendo politico che il Pd potrebbe incassare: trovarsi al governo di una regione imprendibile, spingere la Lega di Matteo Salvini in una crisi terminale (il Veneto è di Luca Zaia, non dei leghisti, e senza la Lombardia cosa resta più?) e dunque spaccare una maggioranza che ad oggi pare litigiosa ma tetragona nel perseguire un’agenda di destra netta e radicale.

Il Pd ha rinunciato a una svolta radicale verso sinistra, si è fermato in un limbo di tatticismi.

 Se ormai è soltanto un partito di professionisti della politica, lo dimostri nella vicenda della Lombardia con una gestione orientata al risultato.

La sconfitta non può essere l’unico punto programmatico nell’agenda di Letta.

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