Matteo Salvini può dirsi soddisfatto. Giorgia Meloni gli ha concesso cinque ministri, il presidente della Camera, la vicepresidenza del consiglio. Il suo 8,8 per cento, il crollo elettorale di quasi 10 punti rispetto alle politiche del 2018, non ha avuto poi conseguenze così nefaste.

Esistono, tuttavia, ancora molti ostacoli interni per il leader della Lega. La questione settentrionale è viva, pulsa, ed è una ferita ancora aperta. I recentissimi sondaggi post elettorali danno il partito ancora in perdita e sono l’ennesimo segnale per Salvini e i vertici a lui fedeli. I prossimi appuntamenti con il voto regionale in Friuli e Lombardia assumono, perciò, un connotato di ultima chance per il Capitano della stagione del Papeete.

La tensione resta altissima nel movimento, a tal punto che il “Comitato nord”, la nuova corrente interna al partito benedetta da Umberto Bossi, è stato giù redarguito dal vertice amministrativo della Lega Salvini premier.

L’ira del nord

Non basterà qualche ministero a placare la base leghista del nord. Neppure se la casella di governo occupata è quella degli Affari regionali data a Roberto Calderoli, già ministro nei governi berlusconi, bossiano, maroniano, infine salviniano e persino disposto a sposare la causa sovranista.

Eppure è il ministero che più conta per portare a casa l’autonomia agognata dai governatori di Lombardia e Veneto. Non basterà perché negli anni in cui il federalismo è stato tradito dal progetto nazionalista di Matteo Salvini, Calderoli è ormai considerato troppo fedele a Matteo Salvini e poco alla causa autonomista.

Il neo ministro è visto con il sospetto con cui si guarda ai collaborazionisti della svolta sovranista. Calderoli era presente dal notaio il giorno in cui è stata costituita la nuova Lega Salvini premier. C’era lui, c’era Giancarlo Giorgetti (nuovo ministro dell’Economia), c’era il tesoriere Giulio Centemero, c’era Lorenzo Fontana (presidente della Camera) e c’era il leader, Salvini, che quel giorno stava dando concretezza al suo partito personale, con tanto di cognome nel simbolo depurato del verde padano e colorato di bianco e di blu. Quel giorno, riuniti, brindavano alla nascita del nuovo movimento e archiviavano tutti assieme la cara vecchia Lega Nord, gonfia di debiti con lo stato per via dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali truffati da restituire allo stato.

Per questo Salvini e Calderoli sono considerati ancora inaffidabile sulla questione più cruciale per chi proviene dalla vecchia guardia: l’autonomia, l’ossessione dei governatori di Veneto e Lombardia. Luca Zaia e Attilio Fontana, oltre a Massimiliano Fedriga che governa in Friuli-Venezia Giulia, una regione che è giù autonoma, fingono che tutto sia in ordine nella casa amministrata dal Capitano Salvini.

Eppure si muovono, senza però rotture evidenti. Ascoltano chi prova a costruire un’alternativa alla Lega sovranista, fingendo di sembrare disinteressati. Il più delle volte mandano avanti altri di medio cabotaggio per sondare le reazioni, loro provocano e attendono. «Non perdiamo tempo nella richiesta di inutili posti per accontentare gli esclusi eccellenti: la Lega e Salvini pretendano, nelle trattative per il prossimo governo, il ministero degli Affari regionali.

La priorità del Veneto, e di tutto il nord, è l’autonomia regionale: non c’è alternativa». A dirlo, subito dopo il voto, è stato un consigliere regionale veneto del partito, Fabrizio Boron. Non un leghista per caso: è stato eletto nella lista Zaia alle ultime regionali ed è un fedelissimo del presidente.

La lista del presidente

È un ultimatum che viene dal nord. E se al primo consiglio dei ministri non verrà discussa l’autonomia, come chiesto e come promesso, la frattura si estenderà. Fino a una possibile divisione della Lega. Perché una cosa è certa: la Lega Salvini premier si chiama così per statuto. È impensabile, riflettono autorevoli dirigenti bossiani, cambiare il leader a un partito che porta nel simbolo il cognome del segretario.

«L’alternativa alla Lega Salvini premier non potrà nascere all’interno del medesimo partito per un motivo molto semplice, il nome è legato al leader, né potrà essere un ritorno alla vecchia Lega Nord, ancora esistente sulla carta ma indebitata fino al collo con lo stato per via della restituzione dei 49 milioni», dice una fonte interna che dialoga con i dissidenti “esterni”. Dunque, che fare?

Superato il trauma elettorale, il sentiero che conduce Salvini a festeggiare il decimo anno da segretario sarà irto di prove e trappole. In Veneto, Friuli e Lombardia osservano. Se entro le regionali in Lombardia o Friuli del 2023 la riforma autonomista non sarà realizzata, il Capitano rischia di trovarsi con un partito dimezzato. E rischia grosso perché in Friuli, per esempio, il presidente Fedriga (non allineato alla linea sovranista) si ricandida con la Lega ma sta già lavorando a una lista del presidente, sul modello di quella di Zaia alle scorse regionali.

I salviniani inizialmente si erano opposti, poi hanno dovuto cedere. Il rischio è che la lista Fedriga superi la Lega Salvini premier e dia l’investitura al governatore anche di leader di un movimento nordista e autonomista. Anche perché prima della lista dovrebbe nascere un’associazione politica, che raccoglierà varie personalità le quali comporranno poi la lista del presidente. Chissà se non sia destinata a diventare qualcosa di più o a diventare il nucleo di attrazione di diversi gruppi che stanno nascendo all’ombra della nostalgia per il Carroccio verde padano.

La scossa nordista

Qualcosa si muove anche in Lombardia, dove si voterà per le regionali sempre nel 2023. Gianni Fava, sfidante di Salvini all’ultimo congresso della Lega Nord nel 2017, è tornato sul campo come regista-sostenitore di un movimento nato dal basso e composto da delusi della nuova Lega sovranista. Il 15 ottobre si sono riuniti a Biassono, in Brianza, Lombardia.

Secondo Fava è da archiviare sia la Lega di Salvini sia il progetto di centrodestra. Ha parlato della necessità di un partito post ideologico, fortemente autonomista, europeista e laico. L’ex sfidante di Matteo giura che non vuole ruoli, si espone solo per dare una mano ai militanti che hanno intrapreso questo nuovo viaggio con l’obiettivo di riportare al centro il nord. «Prima il nord», del resto era lo slogan di Roberto Maroni quando era segretario, prima che arrivasse Salvini con il suo “prima gli italiani”.

Dal 2021 esiste l’associazione “Autonomia e Libertà”, fondata da Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, nonché federalista fino all’osso e sodale di Bossi ai tempi d’oro. Castelli è tra i contestatori più accaniti della svolta nazionalista.

Cosa diversa è invece il “Comitato nord”, corrente interna alla Lega Salvini premier, creata subito dopo il tonfo elettorale con la benedizione di Umberto Bossi, rieletto in parlamento. Uno degli uomini a gestire per suo conto questo gruppo di pressione interno è Paolo Grimoldi, leghista della prima ora e molto duro con Salvini all’indomani del voto. Aveva persino lanciato una raccolta firme per i militanti con cui chiedere il congresso regionale nel più breve tempo possibile.

Poi però è intervenuto Bossi, il “Senatur”, che con la sua idea del “Comitato del nord” ha placato gli animi di alcuni. Non di tutti. Ad altri è sembrata una mossa studiata a tavolino, un cordone di sicurezza attorno a Matteo. La tregua è durata poco, nel partito personale non c’è spazio per correnti e gruppi interni.

Così nei giorni scorsi Giulio Centemero, il responsabile amministrativo nonché tesoriere della Lega Salvini premier (condannato in primo grado per finanziamento illecito), ha scritto una missiva ai fondatori dai toni minacciosi: una diffida per cessare la promozione della corrente nei confronti degli iscritti alla Lega per Salvini premier, all’utilizzazione dei simboli e della denominazione del partito di Salvini.

La lettera ha dato ragione ai molti dissidenti, i quali continuano a pensare che non possa esserci una Lega autonomista dentro l’involucro del partito personale di Salvini.

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