Che c’azzecca (avrebbe detto quello) il bellissimo affresco umano e politico di Moro scritto su questo giornale da Marco Follini con le ultime instancabili piroette dell’alleanza mancata tra Pd e Cinque stelle a Roma, Torino e altrove? Nulla, la risposta che viene naturale dare è semplicemente nulla. Se non che la lettura della prosa di Marco contiene in sé la perizia di accompagnare il giudizio storico con una rilettura del conteso vissuto. Moro «a dirla tutta era anticomunista», scrive Follini, e basterebbe quell’inciso, «a dirla tutta», a dar conto di decenni rivisitati inseguendo comete mai transitate. E ancora, «quella destra (neofascista, ndr) fu sempre il demone di Moro», a conferma, per quanti coltivassero il dubbio, che nel leader democristiano l’apertura di credito al Pci non implicava il desiderio di un grandioso e permanente “equilibrio politico”. Era piuttosto la via, per quanto tortuosa e tormentata, di uno sblocco della nostra democrazia in vista di quell’alternanza di governo praticata altrove. Quanto alla fermezza e all’idea dello stato, «mai rigoroso a prezzo dell’umanità», il pensiero di Follini esige solo meditazione e rispetto.

Ieri e oggi

Detto questo, però, qualcosa della descrizione dello statista democristiano riporta a noi e alle complesse traversie di questi diciotto mesi vissuti sull’altalena dei sì e dei no tra il Movimento di Beppe Grillo, Luigi Di Maio, Giuseppe Conte e il Pd di Nicola Zingaretti ed Enrico Letta. Qualcosa che il precipitare della frattura ai piedi del Campidoglio dovrebbe ora consentire di cogliere nella sua interezza. Per farlo conviene partire da un’analisi pacata, ma seria, su chi effettivamente siano i potenziali alleati di punta di un centrosinistra nuovo e allargato. Provo a declinarla così.

Nella repubblica dei partiti fondati su solide culture e ideologie era complicato trovare nella stessa compagine personalità o esponenti di spicco orientati su sponde politiche contrapposte. Tradotto, c’erano tra i comunisti come tra i socialisti o dentro i partiti laici minori sensibilità diverse, sfumature di linea e persino strategia, ma il sentirsi parte di un campo anziché dell’altro, quella era la premessa stessa dell’appartenenza. Con una eccezione. Comprensibile se collocata in quell’Italia alle prese col suo ancoraggio occidentale e atlantico: la Democrazia cristiana. Perché in quella forza rilevante per la stabilità di governo in un mondo diviso in blocchi convivevano anime e culture, diciamo pure ideologie, che in una fisiologia democratica avrebbero scelto approdi diversi. E infatti quando la Dc finisce, e una volta fallito il tentativo di riprodurre un centro equidistante dai due nuovi poli, un pezzo della sua classe dirigente e del suo consenso piegano a destra, un’altra in coerenza col suo passato partecipa alla scommessa dell’Ulivo.

Ora, usando un paradosso, il Movimento 5 stelle dall’inizio si distingue per incarnare, al punto da rivendicarla, una simile mescolanza. Al di là della formula, «siamo oltre destra e sinistra», basta scorrere, catalogandole, le posizioni dei suoi diversi leader o figure di riferimento per capire come alcune potrebbero serenamente accasarsi con Salvini e Meloni e altre trovarsi a loro agio nel Pd, o volendo, scavalcarlo a sinistra. Con una differenza più che profonda rispetto al passato ed è che nella Dc a tenere assemblati gli opposti ci pensava anche un fattore pesante come pochi nello svolgersi del secondo Novecento. Quel fattore era l’anticomunismo, cemento formidabile e collante efficace al punto che anche quando il comunismo non c’è stato più un’anima della destra incarnata da Forza Italia su quella semplice minaccia ha fondato i suoi primi successi. Insomma, per tenere uniti il diavolo e l’acqua santa devi disporre di una motivazione coi fiocchi: non possono bastare gli slanci volitivi di una piazza rabbiosa (che pure conta) o la sola promessa di scoperchiare il parlamento cacciandone i mercanti infiltrati. Che poi, a dirla tutta anche in questo caso, è la differenza tra una “politica” (e caspita se l’anticomunismo non era tale!) e la rivolta dei Ciompi o una qualunque jacquerie. Cose serissime, s’intende, ma raramente destinate a farsi stato e a strutturarsi in una cultura comune dei rivoltosi.

Comprendere la natura

Per molti versi credo stia qui l’equivoco dei diciotto mesi alle spalle. Non già nell’aver scelto di dar vita e corpo a un governo ibrido tra due forze – Pd e Cinque stelle – avversarie sino al giorno precedente, perché quella si è rivelata una intuizione giusta fosse solo per i risvolti positivi che ha avuto sul legame tra noi e l’Europa. No, il limite penso sia stato equivocare la natura di quel movimento scommettendo sull’approdo al quale avrebbe potuto giungere e non è mai giunto. In questo senso definire Conte un «solido punto di riferimento dei progressisti» si è rivelato un azzardo. Ma attenzione, non per il giudizio sulla persona che dopo l’iniziale sbandamento sovranista ha manifestato una affidabile patente democratica.

Il limite di quella formula era nel ritenere che bastasse la conversione del premier di allora, e capo politico di adesso, a convogliare l’intero movimento, depurato da espulsioni e distacchi, verso una coalizione fondata sul perno del Partito democratico. Purtroppo quella ambizione era il wishful thinking (pensiero speranzoso) di chi non si è avveduto per tempo della deriva già in atto e che la trattativa romana ha disvelato nel suo vero volto. Il Movimento 5 stelle di Grillo e Casaleggio semplicemente non esiste più. E non esiste più perché quel genere di aggregazione e assemblaggio tra diversi e opposti è consegnato al destino delle farfalle: godono di bellezza e vivono una sola breve stagione a meno, appunto, di non disporre di un collante fortissimo. Allora, che fare? A dare consigli si compie spesso peccato se metti il piede in casa d’altri. Ma in casa nostra è diverso e penso che, giunti dove siamo, il Pd debba praticare quel tanto di discontinuità necessaria. La tradurrei così: il Movimento 5 stelle per come lo abbiamo conosciuto ha fatto spazio a una mescolanza di filiere sparse, dotate ciascuna di una scarsa forza, ma in grado lo stesso di inibire una direzione condivisa della marcia. In questo senso la frattura consumata a Roma e le sue possibili ricadute, da Torino a Napoli, si possono leggere come un incidente di percorso da assorbire dentro una strategia che rimane la stessa dell’ultimo anno e mezzo. Personalmente lo riterrei un errore. Il che non significa rompere il filo che lega il Pd a quell’agglomerato, tanto più per l’impronta che Conte pare intenzionato a dargli. Vuol dire una cosa diversa: prendere atto che il Movimento, se vuole sopravvivere alla sua crisi, è destinato a rompersi, a dividersi nella chiarezza degli approdi che l’una parte, quella che si riconosce nella guida dell’ex premier, e l’altra o le altre, dal fronte sovranista alle spinte più antagoniste, sceglieranno di raggiungere. Il Pd, per parte sua non può scegliere la continuità in una sorta di surplace, quell’esercizio di abilità praticato dai ciclisti su pista quando restano fermi allo stesso punto in perfetto equilibrio sui pedali. Dopo cinque anni durante i quali la critica alla Raggi è stata severa, converrà aggredire la campagna elettorale col piglio di chi ha idee e valori per riconquistare il Campidoglio restituendo la Capitale a un decoro di fondo venuto meno e a una cura degli ultimi usata sinora come passepartout della propaganda. Lo scrivo per un un’ultima ragione, perché alla fine della fiera vinceremo le prossime elezioni politiche, che siano tra un anno o due, se l’idea rilanciata da Letta all’assemblea che lo ha eletto di un Pd capace di reincarnare l’Ulivo facendosi perno di un campo largo e civico saprà radicarsi davvero. Per riuscirci dovremo trovare parole e coerenze di nuove alleanze ideali e sociali, ma se vogliamo provarci non si può giustificare l’impossibile. Conviene prendere atto che una linea politica si è consumata e una svolta è doverosa, compresa l’ambizione di riportare a casa quella massa di voti perduti cinque anni fa perché dirottati sull’utopia di un ex comico e oggi drammaticamente orfana, la massa di quei voti intendo, di voce e rappresentanza. Non sono affatto certo che sia un’operazione semplice, però non sono mai le battaglie facili a restituire orgoglio e speranza.

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