Era la giovane leader di una destra orgogliosamente legalitaria, cresciuta nel mito di Falcone e Borsellino. Prometteva di restituire onore e dignità alle istituzioni della nazione. Oggi, circondata da figure che quelle istituzioni le infangano, Giorgia Meloni mette in atto la più classica e cinica delle inversioni: diventa l’erede del tradizionale berlusconismo (anti)giudiziario.

Quello che più stupisce, però, è lo strumento utilizzato per colpire i magistrati, a suo dire artefici dell’ennesimo golpe ai danni di un governo acclamato dal popolo: una nota anonima di palazzo Chigi. Ora, provate a spiegarlo a un osservatore straniero: il capo del governo attacca un potere costituzionale e autonomo non attraverso un’intervista o una conferenza stampa – quelle Meloni le ha ormai abolite – bensì con una dichiarazione non firmata e consegnata per vie informali alle agenzie di stampa. Come a non volersene assumere la paternità. Come se Chigi potesse essere altro da sé. L’accusa è che i magistrati facciano politica. Che dunque si ordisca un golpe togato e silenzioso ai danni del popolo sovrano incarnato dalla Sorella d’Italia.

Che dire? Almeno il Cavaliere, quando c’era da mazzolare i giudici, ci metteva la faccia. Qui no. Qui, con la regia di un magistrato approdato al governo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano (non era la destra a criticare le porte girevoli?), si fa filtrare una minaccia senza volto al potere giudiziario. Le ragioni di questa nuova guerra sono note: un avviso di garanzia alla ministra Santanchè per le irregolarità di Visibilia e l’imputazione coatta per il sottosegretario Delmastro decisa dal gip in contrasto col pm. Ce n’è abbastanza per gridare al complotto dei poteri forti contro il governo di Giorgia underdog calimero. Eppure, stavolta si potrebbe invece esprimere soddisfazione: non era la destra a segnalare l’eccessivo appiattimento dei giudici sulla pubblica accusa?

Qui invece, a quanto pare, un giudice ha fatto di testa sua. Sottigliezze, la posta in gioco è più alta: salvare Santanché. Non perché alla premier stia così simpatica: da tempo anzi le chiedeva garanzie che il crac Visibilia non l’avrebbe travolta. Ma perché la ministra del Turismo è protetta da Ignazio Benito La Russa. Di più, consigliata e difesa, naturalmente in via informale, dall’avvocato presidente, vero contraltare nero al potere dei meloniani di stretta osservanza. E a sua volta impelagato nella vicenda del figlio Leonardo Apache, accusato di aver violentato una ventenne a casa sua. All’indomani della denuncia della ragazza, La Russa padre l’ha attaccata per aver sniffato cocaina e ha assolto il figlio in via diretta e senza dibattimento, dopo averlo “interrogato”.

Padre, avvocato, infine giudice. Uno e trino, alla faccia della separazione delle carriere invocata per giudici e pm. Manca giusto il presidente del Senato. Ma quello, si sa, da mesi è sepolto sotto il comune senso della decenza.
 

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