Nel momento in cui studieranno il crepuscolo della nostra società, gli storici del futuro cercheranno di capire le ragioni per cui gli attuali nostri contemporanei ne avessero deliberatamente accelerato la fine. Tutte le società nascono, si sviluppano e tramontano, e le cause della loro scomparsa sono sempre molteplici, si diranno; la società che esisteva agli inizi del Ventunesimo secolo sarebbe comunque tramontata prima o poi.

L’oggetto dei loro studi non verterà su questa ovvietà, quanto piuttosto sul comportamento incomprensibile e autolesionista degli umani di allora; e il particolare che attrarrà la loro stupefatta curiosità sarà la coesistenza di una profonda crisi demografica e di un debito pubblico gigantesco da una parte e, dall’altra, del rifiuto di accogliere gli immigrati. Gli immigrati avrebbero potuto alleviare sia la crisi demografica che il peso del debito, si diranno i nostri posteri, che saranno assai più razionali di noi. E le perplessità dilagheranno.

Irrazionalità fisiologica

Il difetto dei nostri discendenti, se così si può dire, sarà proprio quello di essere troppo razionali. Se per caso dovesse capitar loro di ritrovare queste pagine in qualche polveroso archivio dell’epoca in cui ancora si usava la carta, potremmo disilluderli fin da oggi: la nostra società non è razionale, né nella sua natura né, tantomeno, nei suoi risultati. Tant’è vero che uno dei suoi primi studiosi e suo massimo apologeta, per immaginarne una finalità positiva, ebbe ricorso alla metafora di una «mano invisibile» che, alla fine, sistema tutto, come la provvidenza del Pangloss di Voltaire. È vero che la «mano invisibile» ha portato l’umanità a livelli di benessere mai conosciuti prima, ma, al tempo stesso, ha portato l’umanità a due guerre mondiali catastrofiche, al massacro sistematico di intere popolazioni, e a un’abissale sperequazione tra chi gode di tutti i benefici del benessere e chi non ne gode alcuno.

Uno degli aspetti più paradossali di questa irrazionalità fisiologica – su cui si appunteranno gli storici del futuro – è che a contestare questa società saranno stati innanzitutto coloro che ne godono tutti i vantaggi; non perché, spinti dalla sete di giustizia, volessero spartire il loro benessere con i più diseredati, ma proprio per la ragione opposta: per impedire ai diseredati di ambire (e ancor meno di raggiungere) i loro livelli di benessere.

Non è sempre stato così: nella nostra società, modi di pensare e di vedere le cose, valori e filosofie, giudizi e pregiudizi variano a seconda delle circostanze. Schematizzando, si potrebbe dire che l’umanità è più generosa e altruista quando le sue condizioni di esistenza migliorano, e diventa più meschina e individualista quando peggiorano, o quando si immagina che possano peggiorare. Sembrerebbe lapalissiano, ma non lo è per tutti: ogni epoca tende a trincerarsi dietro al paravento dei “valori” come se fossero eterni e condivisi da tutti, e di questa favola si impregna tutta la società. Ma quali sarebbero, allora, gli eterni “valori” dei tedeschi? Quelli del popolo più letterato e colto del mondo, con il maggior numero di filosofi e di musicisti pro capite, o quelli del popolo che stermina sei milioni di ebrei? Eppure, è proprio il popolo più letterato e colto del mondo, con il maggior numero di filosofi e di musicisti, che ha sterminato sei milioni di ebrei; quel che era cambiato, non era il popolo, non la “natura umana”, ma le circostanze in cui quel popolo viveva.

Da alcuni anni, forse da alcuni decenni, siamo entrati in una nuova èra di meschinità e di egoismo, sentimenti in cui eccellono proprio i più privilegiati, coloro che hanno goduto di tutti i vantaggi del benessere e temono di vederselo sfilare dalle mani. Beninteso, anche in questa èra, non tutti sono meschini ed egoisti perché, a dispetto della favola dominante, non tutti condividono gli stessi “valori”; anzi, la culture war scaturisce proprio sulla convinzione che i propri “valori” siano quelli veri ed eterni, e che quelli degli altri siano in realtà – come si dice con un povero neologismo – “disvalori”, cioè un insieme di modelli etici e comportamentali che minano i “veri valori”, e quindi l’intero impianto della società che su di essi si fonda.

Le perplessità degli storici del futuro cominceranno a emergere di fronte al comportamento irrazionale di una massa crescente di meschini ed egoisti, che nei primi decenni del Ventunesimo secolo incarnava lo spirito del tempo. Si appunteranno sul paradosso che la loro paura di perdere il proprio benessere sarebbe stata alleviata se, invece di respingerli, avessero accolto nei loro paesi gli immigrati. Gli storici del futuro non perderanno tempo in vane condanne morali dell’egoismo che, come si diceva, è un prodotto delle circostanze storiche; ma si diranno che proprio quell’egoismo avrebbe dovuto portare le masse di quell’inizio del Ventunesimo secolo ad agire in modo totalmente opposto: accogliere immigrati e rifugiati, infatti, avrebbe permesso loro di soddisfare il loro interesse primario e immediato, cioè conservare i propri privilegi e le proprie ricchezze.

Lavoratori essenziali

Sfogliando gli archivi relativi alla pandemia di coronavirus scoppiata alla fine dell’anno 2019, quegli storici scopriranno che gli immigrati costituivano all’epoca una quota importante dei famosi “lavoratori essenziali” venuti improvvisamente alla luce durante il lockdown: medici, infermieri, addetti alla grande distribuzione, operai, tecnici del gas e della rete elettrica, netturbini, corrieri, fattorini, braccianti, colf e badanti, etc.

I dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) relativi al 2016 indicheranno che, nel paese della Brexit, il 33 per cento dei dottori e il 22 per cento degli infermieri erano «foreign-born», la più alta incidenza al mondo dopo la Svizzera (rispettivamente, 47,1 per cento e 31,6 per cento) e il Canada (38,5 e 24,4), e prima degli Stati Uniti (30,2 e 16,4). E altri dati dell’americano Center for migration studies riveleranno che, nell’anno 2018, il 69 per cento degli immigrati legali negli Stati Uniti di più di 16 anni (e il 74 per cento dei clandestini) lavorava in infrastrutture «essenziali», cioè il 18,3 per cento del totale del personale impiegato in quei settori (sebbene con un peso molto diverso a seconda degli stati: il 35,9 per cento in California, per esempio, il 31 per cento nello Stato di New York, il 30,6 per cento nel New Jersey, o il 28,2 per cento in Florida).

Tra le attività essenziali durante il lockdown, erano nati all’estero il 26 per cento degli addetti ai settori industriali alimentare, medico e igienico-sanitario, il 34 per cento degli addetti ai trasporti, e il 38 per cento degli impiegati delle case di riposo (che, ovviamente, il virus aveva colpito in proporzione maggiore: a San Francisco, per esempio, gli ispanici rappresentavano all’epoca il 15 per cento della popolazione ma il 50 per cento dei contagi).

In Europa (Ue-27), nel 2018, il 13 per cento dei lavoratori essenziali erano nati all’estero, anche in questo caso con grandi differenze tra i singoli stati: il 53 per cento in Lussemburgo, il 29 per cento a Cipro, il 26 per cento in Irlanda, intorno al 20 per cento in paesi come Italia, Belgio, Germania, Svezia e Austria; in Italia, uno dei paesi con più anziani al mondo, ma anche uno dei paesi in cui i partiti ostili agli immigrati vincevano le elezioni, più di tre badanti su quattro (il 77,3 per cento) erano nati all’estero.

Incuriositi da questi dati, gli storici del futuro scopriranno che gli immigrati erano indispensabili alla sopravvivenza economica dei paesi più ricchi e privilegiati anche prima della pandemia. La crisi demografica stava riducendo la forza-lavoro disponibile, e solo l’immigrazione aveva permesso loro di sopravvivere: tra il 2016 e il 2020, il saldo naturale (nascite meno decessi) in Europa aveva visto una diminuzione di 460mila persone, ma il saldo migratorio (immigrati meno emigrati) aveva determinato un aumento della popolazione di 1.214.000 persone. Quei numeri, però, erano insufficienti: nell’anno 2022, in Europa, mancavano 1.200.000 lavoratori, e le tendenze non lasciavano presagire nulla di buono, visto che, secondo certi studi, entro il 2050 ne sarebbero mancati quasi quattro milioni in Francia e sette milioni in Germania. Gli storici del futuro potranno verificare se queste previsioni erano esatte.

Come si poteva leggere sul Financial Times del 10 ottobre 2019, l’80 per cento delle imprese giapponesi lamentava una carenza di manodopera, come pure il 50 per cento delle imprese tedesche, il 45 per cento di quelle americane, tra il 20 e il 30 per cento di quelle francesi e spagnole, e circa il 20 per cento di quelle britanniche. Una parte della riduzione del Pil di questi paesi negli ultimi decenni era dovuta precisamente alla manodopera insufficiente: a inizio secolo, l’Ocse aveva previsto per il periodo 2000-2025 un declino medio annuo del Pil dello 0,4 per cento nell’Unione europea e dello 0,7 per cento in Giappone imputabili proprio alla crisi demografica.

Già nel 2011, la Commissaria europea agli affari sociali, Cecilia Malmström, aveva rivelato: «Quando incontro i ministri responsabili delle politiche del lavoro, quasi tutti parlano della necessità di far venire lavoratori immigrati – ed è vero, abbiamo bisogno di centinaia di migliaia, di milioni di immigrati a lungo termine. Ma quando i ministri tornano davanti al loro pubblico nazionale, di questo messaggio non vi è più traccia».

Alla lettura delle parole di Malmström, gli storici del futuro saranno forse ancora più disorientati: perché, sapendo che gli immigrati erano indispensabili, e a milioni, i ministri responsabili non solo non fecero nulla per farli arrivare, ma anzi fecero di tutto per impedire loro di arrivare? Nel futuro, forse, si sarà persa traccia dello stato di decadenza dei sistemi politici i cui responsabili, diciamo così, anteponevano sistematicamente il loro personale successo elettorale al benessere del loro paese: invece di smarcarsi dall’egoismo dei loro elettori, vi si adeguavano plasticamente, perché sapevano che se avessero voluto affrontare i problemi del loro paese non sarebbero più stati eletti, e che se avessero voluto essere eletti, avrebbero dovuto evitare con cura di affrontare i problemi del loro paese.

Conflitto generazionale

Ma i paradossi della situazione demografica di inizio Ventunesimo secolo non erano finiti. Anzi. Una volta appurato che il declino delle nascite comportava una progressiva riduzione della manodopera disponibile, e quindi un declino della produzione e dei consumi, e quindi, inevitabilmente, una crisi, gli storici del futuro verranno a contatto con un’altra incongruenza: la «mano invisibile» aveva reso possibile uno spettacolare aumento della speranza di vita, passata, nel mondo, da 31 anni all’inizio del Novecento a 65 anni nel 2000, per arrivare a 73 nel 2022; ma la stessa «mano invisibile» aveva finito per trasformare quello straordinario successo in un problema sociale, in ragione della combinazione tra bassa natalità e, appunto, allungamento della vita: il “tasso di dipendenza”, cioè il restringimento del rapporto tra popolazione pensionata e popolazione in età lavorativa.

Quel restringimento, avvertiva – nel 1990! – il direttore dell’Istituto francese di studi demografici, Jean-Claude Chesnais, può portare alla rottura del compromesso generazionale: i lavoratori attivi, sempre meno numerosi, saranno chiamati a produrre sempre più per i pensionati, e «nulla permette di sperare che i primi accetteranno di vedere la loro parte diminuire in favore dei secondi».

Nel 1960, nei paesi dell’Ocse, per ogni persona di 65 anni o più, ve ne erano 5,7 in età compresa tra 20 e 64 anni; nel 1990, quel rapporto era sceso a 4,2 e, nel 2019, a 2,8; la previsione dell’Onu era che sarebbe sceso a 1,65 entro il 2050. Perdipiù, mentre il rapporto tra adulti in età lavorativa e pensionati tendeva a ridursi, l’aumento della speranza di vita portava con sé un aumento della spesa sanitaria destinata agli anziani.

La combinazione di questi due fattori alimentava un fenomeno socialmente inedito, chiamato negli Stati Uniti, dove era nato, “ageism”, cioè l’ostilità nei confronti delle persone anziane, viste come predatrici delle risorse pubbliche (e, soprattutto, private).

Nel settembre 2009, in un servizio perfidamente intitolato The case for killing granny, la rivista Newsweek faceva notare come l’aumento della spesa destinata agli anziani «coincidesse» con l’apertura del dibattito sul diritto all’eutanasia. Una coincidenza tanto più significativa se si considera che quella generazione di anziani non solo era la più longeva di qualsiasi altra nella storia, ma anche la più ricca: le successioni e le eredità erano ormai diventate operazioni finanziarie di considerevoli dimensioni (e quindi di considerevole appetibilità).

Alla comparsa del Covid-19, l’“ageism” ebbe un soprassalto: siccome gli anziani erano più esposti al contagio, furono additati come “responsabili” di un lockdown imposto a tutta la società. Gli storici del futuro troveranno persino traccia di quello che, nell’antiquata tecnologia del Ventunesimo secolo, si chiamava hashtag: #BoomerRemover, un allegro incitamento alla pandemia affinché “rimuovesse” massicciamente i boomers, cioè i figli del “baby boom”, nati nei vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale; e troveranno anche, come prova finale della decadenza della società dell’epoca, la foto di una partecipante alle manifestazioni armate contro il lockdown negli Stati Uniti con in mano un cartello assai più esplicito: «Sacrificate i deboli. Riaprite il Tennessee».

Miseria del mondo

Ma i paradossi non sono finiti. Ce n’è almeno ancora uno, e non dei meno curiosi. Uno dei pretesti più frequentemente avanzati dalle popolazioni spaventate dei paesi più ricchi per tenere lontani dalle loro frontiere gli immigrati era l’assenza di risorse per accoglierli: un ministro francese dell’epoca, che perdipiù si definiva “socialista”, aveva fornito una giustificazione sintetica e facilmente palatabile: «Non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo!».

Non sarà possibile, agli storici del futuro, trovare dati attendibili su quanto venisse speso, dai diversi paesi europei o dall’Unione europea in quanto tale, per impedire a immigrati – e persino a profughi di guerra e di calamità, che pure avevano formalmente diritto all’asilo – di varcare i loro confini. In una ricerca di tre studiosi internazionali pubblicata nel 2019 su The Correspondent, gli autori dichiaravano di arrendersi di fronte alla complessità dei capitoli di spesa poco chiari o inaccessibili: «L’Europa spende miliardi per fermare la migrazione. Beato chi riesce a capire dove vadano a finire i soldi».

Alcune spese erano note: 755 milioni di euro all’anno erano destinati all’unico esercito europeo comune esistente, quello creato per combattere gli immigrati – Frontex; sei miliardi erano andati alla Turchia alla fine del 2020 per tenersi in casa profughi e immigrati altrimenti diretti in Europa, che si aggiungevano a svariate centinaia di milioni corrisposti negli anni precedenti allo stesso titolo; 5,2 miliardi distribuiti a governi e milizie private della riva sud del Mediterraneo (tra cui la Mauritania, dove vi sarebbero stati ancora 600mila schiavi) allo scopo di arrestare i flussi di immigrati. Indifferenti al fatto che, per raggiungere quel risultato, decine di migliaia di persone fossero costantemente sequestrate, rinchiuse in campi di detenzione in condizioni disumane, vendute in schiavitù, torturate, stuprate e, a volte, uccise. E indifferenti al fatto che la loro politica di preclusione avesse provocato la scomparsa di 24.303 persone nel Mediterraneo tra il 2014 e il 6 luglio 2022.

Sull’impossibilità di accogliere tutta la miseria del mondo, poi, gli storici del futuro avrebbero notato un’ulteriore incongruenza: nel novembre 2021 alcune migliaia di rifugiati africani, mediorientali e afghani erano stati bloccati per settimane alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, privi di tutto e con temperature intorno ai –10°, perché, si diceva, mancavano le risorse per accoglierli; venti di loro, tra cui un bambino di un anno e un ragazzo di 14, erano morti di ipotermia e fame; ma dal febbraio al giugno 2022, quasi cinque milioni e mezzo di profughi ucraini erano stati accolti in Europa e, per loro, le risorse erano state trovate. Rifugiati di guerra gli uni e gli altri, la sola cosa che li distingueva era il colore della loro pelle.

Gli storici del futuro, dopo essersi applicati con curiosità da entomologhi allo studio del fenomeno Donald Trump, concluderanno che, tra il presidente americano (che aveva dichiarato di non volere più immigrati provenienti da «shithole countries») e i dirigenti europei, la sola differenza stava nel linguaggio.

Complici del collasso

Ma gli storici del futuro noteranno anche che, per alcuni specialisti, i soldi spesi per respingere gli immigrati avrebbero dovuto essere invece impiegati per accoglierli e integrarli nei paesi di destinazione: non solo si sarebbero risparmiate 24.303 vite umane solo nel Mediterraneo, ma si sarebbe cominciato a risolvere, almeno parzialmente, il problema di carenza di manodopera e di deficit fiscale.

In un numero dell’agosto 2015 dell’Economist, in un articolo intitolato Let them in and let them earn, potranno leggere quanto segue: «Molti studi dimostrano che gli immigrati in tutto il mondo hanno maggiori probabilità di avviare attività economiche rispetto ai nativi e meno probabilità di commettere reati gravi, e che pagano più tasse. Portano con sé competenze complementari, idee e connessioni. Trasferendosi in Europa , dove ci sono certezza del diritto e imprese efficienti, possono diventare molte volte più produttivi e i loro salari aumentare di conseguenza».

Taluni sostenevano addirittura l’apertura totale delle frontiere ai movimenti migratori, asserendo che tale misura avrebbe potuto non solo migliorare la vita di milioni di persone ma addirittura raddoppiare il Pil mondiale. Era, per esempio, la tesi dell’economista Michael Clemens, secondo cui, spostandosi verso le aree più sviluppate, milioni di persone avrebbero guadagnato di più, prodotto di più, consumato di più, pagato più tasse e fatto più figli. «Quando vedo le politiche di limitazione dell’immigrazione», concludeva Clemens, «mi sembra che si buttino migliaia di miliardi di dollari sul marciapiede».

Un’ultima assurdità, che completa e compendia tutte le precedenti, è che persone giovani, pronte ad affrontare ostacoli di ogni sorta, a sfidare le avversità naturali, le persecuzioni, la prigionia, violenze e umiliazioni, fino a rischiare la propria vita e quella dei propri cari, non potevano che avere doti di intraprendenza, di coraggio, di risolutezza e di ingegno che avrebbero potuto dare un colpo di frusta alle senescenti, pigre e sterili economie dei paesi di più vecchia industrializzazione. E, invece, le popolazioni senescenti, pigre e sterili economie dei paesi di più vecchia industrializzazione, forse spaventate proprio dalla caparbietà degli immigrati, preferirono trasformare la loro vita in un inferno mostrando loro ostilità e disprezzo: fino a provocare in loro un’ostilità e un disprezzo uguali e contrari. E rifletteranno, gli storici del futuro, che crearsi nemici senza ragione è sempre stato un errore capitale, che ha sempre accelerato la disgregazione e, infine, il collasso delle civiltà.

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