Era già tutto scritto. Come era previsto e festosamente annunciato il “professore Scaglione”, imputato di concorso in associazione a delinquere in compagnia di un bel po’ di talpe e di spioni, esce pettinato e profumato dal processo Montante.

Tecnicamente si dice prescrizione, in realtà è uno dei tanti miracoli della giustizia italiana che – chissà come, chissà perché – il più delle volte ha come beneficiari potenti e parenti. Prescritto lui e prescritti pure una mezza dozzina di suoi coimputati, un classico esempio della legge che è uguale per tutti ma per alcuni è sempre un po’ più uguale che per altri. Carta canta.

Così il “professore Scaglione”, nome di battaglia del governatore della Sicilia Renato Schifani nelle intercettazioni di una delle inchieste più clamorose (e più silenziate dalla stampa) degli ultimi dieci anni, viene tratto in salvo dall’esasperante lentezza di un processo che alla fine doveva finire com’è finito: liberi tutti.

Unico colpevole di un “sistema” è risultato il suo pezzo più difettoso, proprio Calogero Antonio Montante detto Antonello, l’ex vicepresidente di Confindustria che aveva messo su una banda dedita allo spionaggio e al controllo della politica siciliana, affari e ricatti in nome di un’antimafia avvelenata e maleodorante che però era riuscita a incantare ministri e giornalisti “con la schiena dritta”, magistrati esperti di criminalità organizzata e prefetti di prima linea.

Complici di Antonello Montante e di Renato Schifani pezzi grossi dello stato come l’ex capo dei servizi segreti civili Arturo Esposito, o tributaristi di fama come Angelo Cuva con entrature negli alti comandi della Finanza e della regione siciliana. Anche loro associati e anche loro miracolati dalla prescrizione.

La storia del processo Montante è una delle tante storie della giustizia che non sa fare giustizia, è lo specchio dell’Italia dove paga sempre uno, il capro espiatorio, per tutti. È capitato per Luca Palamara per le vergogne della magistratura e delle sue correnti, è capitato per la giudice Silvana Saguto per l’immondo business dei beni confiscati, è capitato per il cattivo Salvatore Buzzi per le terre di mezzo di Mafia capitale, sta capitando a Calogero Antonio Montante per l’antimafia farlocca e cannibalesca, condannato con rito abbreviato a 14 anni in primo grado e a 8 anni in appello.

Ma “il professore Scaglione” alias Renato Schifani ha viaggiato su un altro binario, quello del processo ordinario, un dibattimento alla moviola, gestito dai magistrati di Caltanissetta come un processo qualunque, stiracchiato fin dalle prime udienze, per un po’ impantanato e poi “ammazzato” con una riunificazione che l’ha trasformato in un maxi dibattimento con 29 imputati.

Iniziato più di sei anni fa, il processo con rito ordinario sembra non finire mai. All’inizio una sola udienza al mese, poi una piccola accelerazione che però non è bastata a evitare la prescrizione di massa, a cominciare dal regalo fatto al “professore Scaglione”.

Si sarebbe potuto evitare tutto questo? Molto probabilmente sì. Non sappiamo se ci siano agli atti delle note interne fra i vari uffici giudiziari di Caltanissetta, non sappiamo se ci siano state segnalazioni al Consiglio superiore della magistratura o al ministero della Giustizia, sappiamo però che se qualcuno avesse previsto in tempo (e non era certo difficile) l’istituzione di un secondo collegio in tribunale oggi non saremmo qui a parlare di prescrizione e di fallimento della giustizia.

Più che di perversi meccanismi giudiziari è più giusto parlare di approssimazione, di un modo burocratico d’interpretare la giustizia. Nel migliore dei casi i giudici di Caltanissetta si sono rivelati dei pasticcioni, che non hanno saputo tirare bene i conti su quel processo che stava facendo tremare molti palazzi.

Resta naturalmente una sensazione sgradevole, la prescrizione che ha graziato alcuni potenti. Ma dov’è la novità, cosa c’è poi di tanto diverso nella vicenda odierna di Caltanissetta da molti altri casi giudiziari italiani?

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