Il Partito democratico assomiglia a quelle famiglie aziendali nelle quali si aspetta la morte del patriarca per succedergli. Il defunto è ancora caldo e già figlie e figli scendono in pista per prenderne il posto. Le monarchie si sono stabilizzate imponendo una successione ereditaria scrupolosamente disegnata secondo linee di parentela certificate. Le democrazie hanno risolto il problema con le elezioni.

Per i partiti la questione è molto più difficile di quel che capita ad una famiglia o ad un regime. Perché i partiti sono associazioni volontarie ed è solo l’organizzazione a garantire l’ossatura di unità, la quale anche richiede virtù politiche come la lealtà, la fedeltà e perfino il patriottismo, scriveva Richard Hofstadter spiegando il significato dello “spirito di partito”.

Che cosa tiene insieme ed ispira queste virtù? Nei partiti di massa classici erano le ideologie e le alleanze tra classi vicine negli interessi; nei partiti pragmatici il riferimento è ai principi, non sempre nobili, ovvero a interpretazioni della comune costituzione in vista di una società aperta oppure chiusa, di progresso o protezione regressiva. Oggi, sono le identità ad essere mobilitare in un campo o nell’altro, come vediamo.

Comunque sia, organizzazione e principi insieme fanno l’unità del partito, e regolano la successione. Il Pd manca di entrambe. Soffermiamoci sull’organizzazione, poiché lo spettacolo di queste ore, di leader che si candidano come se questa sconfitta fosse solo un esame andato male, è dimostrativo di un partito che non c’è. Ci sono competitori che duellano per essere leader; altro non c’è.

Dunque, l’organizzazione stabilita dallo statuto del Pd è esattamente come quella di un’azienda di famiglia, con la differenza che qui non c’è alcuna famiglia, solo il leader. Non avendo alcuna forza d’unione dentro di sé, neppure l’organizzazione è importante; ciò che conta è la forza plebiscitaria del leader. Il Pd è il suo leader. E se non trova un leader capace, rappresentativo e popolare, il partito passa da un leader ad un altro dopo ogni elezione, che viene o persa o non vinta.

Forse, chi vota Pd lo fa per principio o possiede le virtù d’unione; ma chi lo dirige governa a suo capriccio poiché l’unico obiettivo che ha è di stare in sella, mettendo in atto tutti gli espedienti (e gli errori) possibili, e rischiando l’osso del collo. L’esito è che mancando la coralità e la ragione d’unione, il partito subisce tutte le conseguenze della performance del suo capo.

E ad ogni prova andata male cambia cavallo, senza sosta. Se il Pd non cambia il proprio statuto e non si dà un’organizzazione d’unione, cambiare il segretario non servirà a nulla. Senza questa decisione costituzionale, il congresso sarà un lamento di rito di persone attente prima di tutto al proprio ruolo istituzionale. Com’è ora, questo Pd non serve a nessuno, neppure ai suoi leader.

© Riproduzione riservata