Con il G20 appena concluso e l’assemblea generale dell’Onu alle porte, settembre parrebbe il mese ideale per coltivare la speranza di un allentamento della tensione globale.

Puntualmente, però, le aspettative alimentate da ogni summit finiscono per infrangersi sulle dichiarazioni finali dei presenti che appaiono forzatamente interlocutorie e ispirate da una diplomazia vaga e ingessata.

Alla fine, il risultato più concreto è quello di nutrire la crescente sfiducia sulle capacità di conseguire un qualche esito reale, oltre ad offrire l’opportunità a presidenti e cancellieri di assaggiare le specialità della cucina locale.

I risultati lunghi

Chi conosce i tempi della geopolitica sa, tuttavia, che i risultati di un vertice internazionale vanno oltre i documenti programmatici e rimangono per lo più sussurrati tra le pieghe protocollari di adempimenti all’apparenza inconsistenti. Gran parte delle dinamiche globali che inducono a cambiamenti di rapporti di forza o dei confini lungo la Terra assomigliano più al lento movimento geologico delle “placche tettoniche” che una gara di velocisti.

Alle volte un terremoto o un’eruzione vulcanica intervengono ad accelerarne il processo; più spesso si tratta di alterazioni che appaiono percettibili solo a distanza di anni. Il magma delle idee e delle istanze avanzate da ogni nazione defluisce e si arresta, si solidifica e torna a fondersi; più e più volte prima di cristallizzarsi in una forma nuova e definita.

Oggi quel magma fuoriesce dalla frantumazione di un “blocco” che credevamo monolitico e globale nella rappresentazione stagliata della democrazia liberale. A oriente sembra sorgere un nuovo continente e con esso tanti altri piccoli frammenti, indecisi se fondersi con questa o quella “placca” o aggregarsi dando vita a una “massa” autonoma e compatta.

Vertici come il G20, che ospitano realtà molteplici e contraddittorie, aiutano a scorgere questi movimenti, e a individuare le “faglie” lungo le quali potersi attendere nuove frizioni e fratture. E non si tratta solo di attriti strategici o stratagemmi politici, ma sempre più di asperità tra visioni storiche e identitarie alternative.

Le due culture opposte

Una di queste “faglie” si è palesata in maniera evidente al G20 di Delhi, quando il padrone di casa, il primo ministro Narendra Modi, ha presentato la sua nazione con il nome pre-coloniale di Bharat. Un gesto eloquente, metafora della spaccatura tra due visioni di mondo divergenti: da un lato “la cultura del misfatto”, dall’altro la “cultura del riscatto”.

La prima si sta impadronendo di una parte di mondo che è ormai da tempo impegnata a fare i conti con le responsabilità del proprio passato, scaturite dalla sua storica volontà di dominio: un potere brandito contro popoli risucchiati nel gorgo coloniale ed ecosistemi stravolti da un soffocante inquinamento.

Puntuale o meno che sia questa narrazione, ha un reale impatto emotivo sul presente che viviamo: questo nostro “senso di colpa storico" si trasforma nella paura di non avere un futuro, sopraffatti dall’idea che dovremo rimediare ai nostri misfatti, restituendo ciò che abbiamo carpito con la forza.

La seconda vede nazioni che, al contrario, del futuro hanno una fame smodata, mosse dal desiderio di redimersi dalle umiliazioni patite. Determinate a conquistarsi uno sfolgorante trionfo, sono pervase da una forza vitale non sempre razionale, ma tale che nessun sogno sembra mai troppo grande: la Turchia del neo-ottomanesimo, la Cina dalle aspirazioni imperiali, l’Arabia Saudita delle emissioni zero nel 2050… Aspirazioni e progetti di un mondo che reclama il suo secolo, ed è pronto ad avventarsi su di esso.

Non sappiamo come il magma di idee e intenti evolverà. Se è certo che anche questa volta servirà tempo per capirlo, possiamo già intravedere i rischi di una tensione sempre più carica di energia: in una sfida tra un contendente spossato e impaurito dal futuro, e un altro affamato di vita e bramoso di gloria, la natura sembra non aver mai avuto dubbi.

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