Voi dove andreste ad aspettare l’apocalisse? Uno dei personaggi del l’ultimo libro di Paolo Giordano, il fisico delle nuvole Novelli, risponde «in Tasmania». Perché la Tasmania è abbastanza a sud «per sottrarsi alle temperature eccessive», ha acqua, è parte di uno stato democratico (l’Australia), non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi più semplice da difendere, «perché ci sarà da difendersi, mi creda».

Maree che salgono, scarsità di cibo, incendi, alluvioni, lotta per le risorse e tutto il resto che arriverà inevitabilmente con la crisi climatica che fingiamo di considerare un’eventualità invece che lo scenario che stiamo rendendo inevitabile.

E allora perché poi Novelli non si trasferisce davvero in Tasmania? E perché non lo fanno tutti i personaggi del libro di Giordano che si chiama, appunto, Tasmania (Einaudi)?

Nel bunker

La domanda è legittima, perché i tanti scienziati (anche Giordano lo è, un fisico) che affollano le pagine del libro sono forse gli esseri umani più consapevoli delle varie catastrofi in corso, quella climatica e i suoi derivati.

Sanno che niente di ciò che stiamo facendo eviterà gli scenari peggiori: lo dice anche l’ultimo rapporto dell’Unep, una delle agenzie dell’Onu sul tema.

E’ già troppo tardi per contenere l’aumento della temperatura mondiale entro 1,5 gradi rispetto all’era pre-industriale, cioè l’obiettivo degli accordi di Parigi del 2015 citati all’inizio del libro di Giordano (che è un romanzo, non un saggio climatico).

Il peggio che temiamo è ormai lo scenario baseline, il tendenziale, quello destinato a verificarsi a meno di brusche sterzate.

Dunque, perché gli scienziati che hanno le informazioni e la capacità di analizzarle, che conoscono la politica quanto basta da non sottovalutare l’inerzia, continuano a vivere le loro vite e non migrano al riparo? O non costruiscono bunker pieni di scatolette di tonno e impianti di depurazione di acqua potabile?  

Per la risposta bisogna affidarsi alla capacità della letteratura di trovare, per vie laterali e non lineari, risposte a domande difficili che la scienza fatica a dare.

Equazioni e modelli sono tentativi di riportare la complessità a un linguaggio relativamente semplice, maneggiabile, sia pure soltanto da esperti.

Ma sono comunque semplificazioni, catene di cause ed effetti vere e precise soltanto quanto lo sono le ipotesi e i dati su cui si reggono. A volte quelle semplificazioni non catturano certe sfumature.

Forse per questo, e non soltanto per il successo de La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano ha smesso di fare il fisico e si è dedicato ai romanzi, senza smettere però di essere uno scienziato.

 Ha scelto un approccio non lineare a questioni che la matematica non riusciva a dirimere, le parole come strumento più potente dei numeri, ma che vanno maneggiate con altrettanto rigore e precisione affinché producano segnale e non rumore, per usare il gergo degli statistici.

Privato e pubblico

Il Paolo del romanzo, perché Giordano non sfugge alla gabbia dell’autofiction (sono gli editor a imporla?), assomiglia molto al Paolo autore: è uno scrittore che ha avuto successo, scrive sul Corriere della Sera, applica la sua razionalità da fisico e la sensibilità del romanziere a quei grandi fatti di cronaca che i giornali raccontano sempre accompagnati da un commento “autorevole”.

Più complicato il fatto, meno specialistico deve essere il commento: di fronte al disastro climatico o a un attentato terroristico, è il ragionamento in molte redazioni, il lettore non cerca l’analisi dell’accademico ma un barlume di senso che solo l’intellettuale distaccato ma acuto può offrire.

Il Paolo personaggio si occupa del vertice sul clima, a Parigi, ma anche un po’ di terrorismo islamico e di questioni di genere:  non ha però ancora completato la mutazione, quasi inevitabile, da scienziato a disinvolto tuttologo.

Frequenta poco la televisione e dunque crede ancora nella responsabilità che comporta l’uso delle parole, forse perché da collaboratore esterno di un grande giornale è immune al cinismo che permea la vita di redazione.

Comunque, questo suo prendere sul serio il lavoro di scrittura – invece che viverlo come un dividendo della celebrità – genera una tensione costante tra il dovere di occuparsi della grande catastrofe del momento e la banale consapevolezza che la vita continua, che ci sono problemi, bollette, amori incerti.

L’apocalisse climatica e la possibile estinzione dell’umanità sono uno sfondo remoto ma anche il vissuto quotidiano, il romanzo inizia con la presa d’atto che il Paolo personaggio e la moglie Lorenza non avranno mai un figlio loro: cos’è questa se non un’anteprima personalizzata dell’estinzione?

Eppure, come per tutte le altre crisi, il Paolo personaggio declina nel suo privato lo stesso atteggiamento che abbiamo tutti di fronte alle catastrofi che incombono su di noi. La rimuove, senza cancellarla, non ci può mai essere spensieratezza se c’è consapevolezza. Ma comunque bisogna pur vivere.

Uno dopo l’altro i personaggi del romanzo rinunciano a fare l’unica cosa razionale, che sarebbe sempre trasferirsi in Tasmania e armarsi per quando la crisi climatica innescherà guerre e tragedie, perché sono troppo presi da altro: lo scienziato famoso che scopre i talk show e poi le shitstorm sui social, quell’altro che non può occuparsi troppo del mondo perché impegnato nella battaglia legale sulla custodia del figlio.

Perfino la giornalista che documenta le efferatezze dell’Isis si indigna più per i tagli ai suoi articoli e le basse tariffe che per le decapitazioni.

Anche l’amico prete ha i fatti suoi a cui pensare e non può dedicare troppo tempo ai tormenti del Paolo personaggio, figurarsi alla crisi climatica o alla fine del mondo o a che pensa Dio di tutto questo, ammesso che abbia un’opinione.

Razionale e irrazionale

In Tasmania (spoiler) non ci va nessuno. Eppure, sarebbe una conclusione sbagliata vedere nel romanzo di Paolo Giordano una dichiarazione di resa, la semplice presa d’atto che il nostro privato conta sempre di più del destino comune.

L’elogio dell’individualismo sarebbe anche un esito sorprendente del libro, visto quanto Giordano si è speso in questi anni di pandemia per favorire decisioni condivise e razionali, e cooperative, nell’affrontare quella che è stata la più collettiva delle tragedie private, cioè il Covid.

E infatti il libro romanzo anche ad altre, parallele, conclusioni: ognuno dei personaggi finisce per affermare un primato della vitalità sulla rassegnazione, anche nell’attesa dell’apocalisse bisogna pur gestire al meglio il tempo, breve o lungo, che ci è dato.

L’intervento di cataratta che permette al Paolo personaggio di tornare a vedere il mondo a colori è un espediente (un po’ didascalico) per segnare una cesura e rendere palesi i tanti indizi seminati nelle pagine precedenti: l’attesa dell’apocalisse non può portare alla rinuncia alla vita.

Il comportamento razionale, avere piena percezione della gravità del momento, conduce alla più irrazionale delle conseguenze, cioè anticipare il disastro finale perché tanto è impossibile evitarlo.

E invece la vita – o almeno la forza di inerzia – è più forte, perfino la più insormontabile delle barriere, quella paternità mancata nelle pagine iniziali, si scopre essere soltanto una questione di prospettiva e non un fatto incontrovertibile.

Per gran parte del romanzo il Paolo personaggio fa ricerche per un saggio sulla bomba atomica, quella di Hiroshima e Nagasaki, ossessione di ogni fisico.

Dopo tanto studio, si trova anche di fronte a un sopravvissuto, uno degli ultimi. E non sa che dirgli: è soltanto un anziano signore che ha attraversato una tragedia immane e poi ha dovuto continuare la sua vita. Tutto qui, niente di meno e niente di più.

Anche la tragedia della coppia, gradualmente, si ricompone in un nuovo assetto, non perfetto ma sostenibile,  perché l’alternativa all’apocalisse non è la salvezza bensì soltanto la normalità, costruita una scelta irrazionale dopo l’altra, perché siamo fatti così.

Alla fine, che senso ha salvarsi in Tasmania se bisogna rinunciare a tutto quello che temiamo di perdere con l’apocalisse imminente? Meglio aspettarla facendo altro. E, se possibile, posticiparla un po’.

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