Circa vent’anni frequentavo il master della scuola Holden di Torino. All’epoca, nella vecchia sede, era abitudine per gli studenti lasciare un libro nella biblioteca e in cambio sceglierne un altro da portarsi via. Non ricordo quale romanzo regalai, ma ricordo bene di essere uscito di là con Il lungo addio di Raymond Chandler e un innamoramento che è resistito ai mutamenti dei tempi e dei gusti.

Ora me ritrovo tra le mani, pubblicato da Adelphi, nella disinvolta traduzione di Gianni Pannofino. Libro di culto, libro adamantino e caleidoscopico, libro bifronte: conduce il noir al suo apice e nel contempo ne condanna la fine, in certo senso, esaurendone le possibilità in un solo magistrale colpo.

La vita imita l’arte

È stato lo stesso per il suo autore. Uscito negli Stati Uniti nel 1953, The long goodbye corona e al contempo mette fine anche alla carriera di Chandler, sebbene dopo questo escano ancora un paio di libri, ma non all’altezza del suo genio. Nel 1954 muore infatti l’adorata moglie, di 18 anni più grande, e il romanziere entra in una spirale di depressione e alcool, da cui si riprenderà solo in parte, ma senza portare con sé il vertice del suo talento. La sua vita finirà per imitare in qualche oscuro modo la sua arte.

Ed è proprio dal Lungo addio che prenderà spunto. Prima lui proverà un maldestro suicidio, per tanti dettagli simile a quello tentato dallo scrittore coprotagonista del romanzo, Roger Wade, il cui biglietto d’addio sarebbe stato perfetto per lo stesso Chandler: «non ho più voglia di amare me stesso e non c’è più nessuno che io possa amare».

Ma le significative coincidenze non si fermeranno qui. Un altro dei coprotagonisti, Terry Lennox, scrive a Marlowe dopo essere fuggito: «Perciò dimentica tutto, me compreso. Prima, però, beviti un gimlet alla mia memoria da Victor’s. E la prossima volta che ti prepari un caffè, versamene una tazza, aggiungici del bourbon, poi accendimi una sigaretta e mettila vicino alla tazza. Dopo di che, dimentica tutto». Ebbene, morta la moglie, Chandler onorerà il suo ricordo in un modo simile: «Domani è, o meglio sarebbe stato, il nostro trentunesimo anniversario di matrimonio. Riempirò la casa di rose rosse e inviterò un amico a bere champagne, come facevamo sempre. Un gesto inutile e probabilmente sciocco, perché il mio perduto amore è perduto per sempre. Ma lo farò lo stesso. Tutti noi duri siamo, in fondo, sentimentali senza speranza».

Sentimentale lo è pure Philip Marlowe, l’investigare privato al centro dei suo romanzi, comparso per la prima volta nel 1949, nel Grande sonno, che sconvolge per sempre la storia del giallo. All’epoca Chandler ha la bellezza di 51 primavere. Che aveva fatto in tutti quegli anni precedenti? Aveva vissuto almeno un paio di vite. Per la verità la passione per la scrittura è precoce, emerge già alle superiori, quando scrive poesie. Arriva secondo a un concorso e decide di smettere. Dice che sarà la sua fortuna, perché lui era il classico tipo che poteva essere un buon secondo in quasi qualsiasi cosa.

Raymond, però, mirava al primo posto. Dopo la guerra in Europa, torna negli Stati Uniti, si impiega nel settore petrolifero, finisce invischiato nella crisi del 1929 e in grane personali, fa carriera, la manda a picco, trova e perde lavori, guarda nel fondo della bottiglia, la bottiglia guarda nel suo. Quando tocca il fondo, negli anni Trenta, riscopre la scrittura, butta giù alcuni racconti, li vende alla rivista Black Mask e pensa che in fondo sia un buono modo per guadagnarsi da vivere.

Gialli senza spartito

Nel 1953 ha alle spalle cinque romanzi con protagonista Marlowe, il cavaliere solitario con sigaretta all’angolo della bocca e cappello sulle ventitré, portato sugli schermi nel 1946 da Humphrey Bogart, che contribuisce a costruire un canone estetico con cui da lì in avanti dovranno fare i conti tutti gli investigatori, perfino quelli precedenti, che si troveranno costretti a imitarlo. Proprio Bogart, durante le riprese del Grande sonno, ha una discussione con il regista, Howard Hawks, e con lo sceneggiatore, tale Faulkner William: per quanto leggano e rileggano il testo non riescono a capire se uno dei personaggi si sia ucciso o suicidato. Scrivono disperati a Chandler che risponde con un chiaro telegramma: «Non ne ho idea».

Su questa “non idea” si fondano le sue trame, che ti conquistano forse proprio per il loro rabdomantico peregrinare, per il loro suonare a orecchio, senza spartito. Non ci sono “meccanismi a orologeria” o “congegni perfetti” cari a tanti thriller. Chandler afferma che il vero giallo è quello che leggeresti anche se sapessi che gli è stato strappato l’ultimo capitolo. Qui non si ha nessuna fretta di arrivarci. Lo si centellina, gustandolo pagina per pagina, anzi riga per riga. Non lo si legge per sapere come va a finire – si sa come va a finire la vita, e i libri di Chandler quello sono, vita pura – ma per il piacere di indugiare, di godere a lungo della prosa e dell’occhio di questo inimitabile autore, che ama raccontare le sconfitte, le cause perse, le poesie scritte e poi perdute, le persone che si rimpiccioliscono negli specchietti retrovisori delle auto, gli eterni amori di una notte, i momenti tristi, solitari y final, i lunghi addii o le amicizie fulminee, come con quelli incontrati per caso su una nave, di cui dopo una settimana credi di sapere tutto, ma di cui non conoscerai mai nulla.

«Marlowe è un uomo solitario, povero, pericoloso e dotato di profonda compassione. Penso che continuerà a venir svegliato a un’ora scomoda da una persona scomoda che gli chiederà di fare un lavoro scomodo. Credo che questo sia il suo destino: probabilmente non è il migliore dei destini, ma è comunque il suo.» Diventa così l’incarnazione di quel principio di redenzione, che secondo Chandler è fondamentale nell’arte.

Quello che sembra rifiutare Robert Altman quando nel 1973 gira una particolare versione del Lungo addio, con un ispiratissimo Elliot Gould, e un cameo di Arnold Schwarzenegger. Riscrivendo il finale, in quello che pure è un film memorabile, sembra però tradire lo spirito di Marlowe, che non cerca di fare giustizia, semmai di essere un giusto, il buon samaritano, che non si preoccupata di andare a caccia dei briganti, quanto di soccorrere il malcapitato di turno, a prescindere dalla sua fedina penale.

«Non riesco a capire perché ti sei preso tutto questo disturbo» dice un poliziotto al nostro investigatore, che per aiutare l’amico ha rimediato galera, botte e concrete minacce di morte. «Lennox non lo meritava».
«E questo che c’entra?».

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