La tornata di nomine pubbliche del governo Meloni si è verosimilmente conclusa, almeno per ora, mostrando una foga bulimica nel prendersi tutte le possibili presidenze e direzioni e una voglia di rivalsa sopita per decenni come mai si era visto prima. Ma se lo spettacolo offerto dal governo è disdicevole, purtroppo si deve dire altrettanto della reazione di gran parte della stampa, e dei molti commentatori da talk show ai quali dovrebbe essere richiesta una minima padronanza dei rudimenti del diritto pubblico e della storia.

La delusione non viene certo da chi sostiene apertamente questo governo. Ma da chi a questo governo si oppone, e da quelli che mantengono una terzietà, identificabili soprattutto nell’area moderata-liberale dei principali quotidiani. Questi ultimi hanno semplicemente ripetuto, nei giorni passati, l’argomento «Così hanno sempre fatto tutti i governi».

I primi hanno mostrato un’opposizione più palese, focalizzata soprattutto sulla “forma”, in particolare sul fatto che in alcuni casi il governo non ha aspettato la fine del mandato di alcuni dirigenti pubblici, e con vari sotterfugi (commissariamento nel caso dell’Inps, decreti ad personam o contra personam nel caso della Rai) hanno sostituito anche i dirigenti non in scadenza di mandato.

Questa forzatura è stata criticata come una mancanza di stile, insomma una sgarbo che rivela l’inadeguatezza istituzionale della presidente del Consiglio e del suo governo. Ma questa è una critica molto blanda e che non coglie la severità di quanto accaduto, e di fronte alla quale il “Così fan tutti” finisce per dominare e chiudere la questione con un’alzata di spalle. E questo è molto pericoloso.

La dittatura della maggioranza

La divisione dei poteri che è alla base delle democrazie moderne non si fonda semplicemente sulla triade di Montesquieu – legislativo, esecutivo, giudiziario – e sulle istituzioni normalmente identificate con questi poteri, il parlamento, il governo, e la magistratura.

I destini di un paese sono determinati dall’operare di tante altre organizzazioni sulle quali certo il potere politico ha influenza, per garantire un contatto fra la popolazione che elegge i suoi rappresentanti e organi non eletti democraticamente, ma che sono anche dotate di una loro autonomia.

Il sistema informativo (radio e televisione) indirizza l’opinione pubblica e crea una narrazione che concorre a determinare il comune sentire. Imprese in settori “strategici”, come l’energia e il complesso industriale-militare, non solo producono occupazione e ricchezza, ma influiscono sulla posizione di un paese nel contesto internazionale e indirizzano il futuro in una direzione invece che un’altra.

Anche agenzie “tecniche” come l’Inps o l’Istat hanno una valenza politica: le decisioni su quali dati raccogliere e come presentarli, o su come mettere in pratica certe leggi, non sono neutre e oggettive, ma contribuiscono a comunicare e definire un tipo di società.

Tutte queste organizzazioni fanno quindi parte del complesso insieme di pesi e contrappesi su cui una democrazia si regge, non solo per evitare derive autocratiche che possono originare da uno o più elementi del sistema, ma anche per evitare un’altra, più sottile degenerazione della democrazia, e cioè la “dittatura della maggioranza”.

Chi vince le elezioni, insomma, ha il diritto di governare e indirizzare un paese, ma ha anche il dovere di rappresentare tutti, di tenere insomma quel paese unito. La pluralità di poteri, più o meno direttamente espressione della volontà popolare, e l’architettura istituzionale che li regola devono essere argini contro queste distorsioni. 

Non rispettare le scadenze

E un aspetto essenziale di questa architettura è proprio dato dalla non coincidenza della durata e delle scadenze della dirigenza di queste varie organizzazioni. I casi più ovvi riguardano, per esempio, la durata quinquennale delle cariche parlamentari e settennale della presidenza della Repubblica, oppure il fatto che la caduta di un governo non porta automaticamente allo scioglimento del parlamento.

Ma poiché limitarsi a pensare che siano solo questi tre organi a richiedere separazione e bilanciamento è molto riduttivo, queste asimmetrie valgono anche per agenzie e imprese a controllo pubblico. Un governo, per esempio, può entrare in carica e trovarsi a interagire con dirigenti di questi altri centri di potere nominati dal governo precedente, e dover aspettare la scadenza del loro mandato per eventualmente sostituirli. E poterlo fare in momenti diversi, perché non tutte le scadenze coincidono.

Si tratta di un’altra forma di controllo contro potenziali abusi, che seppur all’interno di un sistema formalmente democratico, ne potrebbero minare le fondamenta. Le “forme”, cioè le regole istituzionali, sono quindi “sostanza”, perché contribuiscono a mantenere solida una democrazia. E a sua volta, la sostanza della democrazia si esprime anche attraverso le forme.

Se quindi è comprensibile che un governo nomini dirigenti di enti e imprese pubbliche che siano vicini ad esso politicamente e culturalmente, farlo prima della scadenza del mandato non è solo una sgrammaticatura formale, ma una violazione di quel delicato complesso di pesi e contrappesi che è la sostanza stessa della democrazia. 

Il rischio di sottovalutare

È difficile non scorgere, nell’azione del governo, il fastidio per quei princìpi liberali che nessuno dovrebbe mettere in discussione, e sulla base dei quali, ma non in loro assenza, possono emergere diverse sensibilità e linee politiche (conservatrici, riformiste, socialdemocratiche).

Non è peraltro un mistero che la cultura ora egemone nel governo italiano non si riconosca in questi princìpi basilari. Basti pensare al rifiuto, incredibile per chiunque abbia un minimo di cultura democratica, di riconoscere nell’antifascismo la radice della Costituzione e della Repubblica italiana.

Ma anche alle proposte presidenzialistiche, plebiscitarie e accentratrici di potere delle riforme costituzionali che la presidente Meloni desidera. 

Ed è difficile, di fronte a tutto questo, non temere che il banale “Così fan tutti”, con cui molti commentatori “moderati” dei grandi giornali hanno liquidato le nomine del governo, assomigli molto all’indifferenza e implicita acquiescenza che quegli stessi giornali mostrarono verso altri governanti un secolo fa. Sappiamo come andò a finire. La linea di confine fra le sgrammaticature e le distorsioni irreversibili è più sottile di quanto si preferisca pensare.

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