Al di là della cronaca politica italiana non ci deve stupire che la paura dell’anarchia venga evocata nel 2023 come se improvvisamente tetri cospiratori tornassero a minacciare le carrozze di zar e altezze reali.

Certo a preoccuparci c’è una radicalità talvolta violenta storicamente associata al movimento, ma quello che ci rende veramente sgomenti è la sua opposizione all’ordinamento funzionale, in particolare quello che sorregge lo stato.

Un’idea da maneggiare con cura, ma, se proviamo ad interrogarci sul significato di anarchia nella società contemporanea, potremmo scoprire che, in realtà, questa parola oggi ha più a che fare con noi di quanto immaginiamo.

L’intero pensiero occidentale, dalla filosofia greca all’età contemporanea, si fonda sull’esistenza di un ordine che dà forma al nostro mondo. Un “arché”: un principio generatore di tutte le cose su cui radichiamo il nostro essere.

Nell’espansione della civiltà è stato il luogo da cui partire per esplorare, scoprire, conquistare e dove tornare una volta assecondato il nostro desiderio di conoscenza.

Così come è esistito un “arché” politico: un sovrano, o uno “stato sovrano”, capace di concretizzare l’ordine nelle regole necessarie allo sviluppo. Ma soprattutto un “arché” nella nostra mente: l’idea che dava uno scopo alle nostre esplorazioni e un fine ai nostri sforzi.

Tutto il progresso di cui siamo debitori è fondato su questa pietra angolare. Da Ulisse a Einstein, i più grandi pensatori dell’occidente, si sono dati regole, hanno tracciato rotte e fatto progetti per tornare a Itaca, o chiudere l’universo in una formula.

Dunque, niente di strano che ci terrorizzi chiunque ci proponga un “an- archè”: una forza che va dichiaratamente contro le regole, minacciando di infrangere la bussola che dà un senso al nostro viaggio. Il timore aumenta costatando che se l’ordine assume una forma fisica basta colpire ciò che ne rappresenta il centro per scardinarlo.

«Io non ho ucciso Umberto. Ho ucciso il re, un principio», dichiarava l’anarchico Gaetano Bresci a Monza nel 1901 dopo che aveva decapitato la monarchia italiana con tre colpi di pistola. Dal suo punto di vista era vero.

Ma oggi anche Bresci riconoscerebbe di essere nel torto: un an-archè non avrebbe simboli altrettanto chiari a cui mirare. È inutile cercare il centro di un ordine in un mondo diventato una rete, in cui persino i nodi delle interconnessioni cambiano continuamente.

Coercizione indispensabile

Anche Friedrich von Hayek, padre del liberalismo, teorizzava che il massimo della libertà individuale fosse rompere i legami con qualsiasi forma di ordine, ma il pensiero che questa formula assomigliasse a qualcosa di più pericoloso doveva averlo sfiorato, perché nel 1978 scriveva: «Il liberalismo si distingue nettamente dall’anarchismo e riconosce che… la coercizione non può essere eliminata, ma soltanto ridotta all’indispensabile».

Nel 2023 anche questo stretto “indispensabile” sembra troppo: il neoliberismo ha contribuito alla formazione di una società liquida, dove le strutture sovranazionali non riescono ad imporsi agli Stati, le istituzioni non riescono a governare sull’economia e le centrali dell’economia non hanno il controllo sul denaro.

La globalizzazione continua a tener vivo il desiderio di espanderci nel mondo, ma si presenta come una semplice volontà di potenza e libertà, senza confini della forma, senza linee, progetti e visioni. Non c’è più un’isola dove tornare, o un “sovrano” a cui portare i risultati delle nostre esplorazioni.

Alla fine, a rompere la bussola siamo stati noi stessi, o quantomeno ci siamo dimenticati come si usa.

Ora non resta che spiegare agli anarchici come il loro progetto non abbia più ragione di esistere nel XXI secolo, non perché anacronistico, ma perché lo abbiamo già realizzato a nostra insaputa. Forse è proprio questo a lasciarci davvero sgomenti.

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