C’è un nesso tra le legittime preoccupazioni di Liliana Segre sulla labilità della memoria e l’apprensione che le intelligenze artificiali come ChatGPT ci diseduchino alla scrittura. Temi che non sembrano avere molto in comune, a parte l’essere tra i più seguiti dei giorni scorsi, ma, in realtà, connessi dallo stesso problema pedagogico. La domanda che li unisce è: quanto siamo disposti a utilizzare la tecnologia per semplificare l’esperienza di un mondo complesso, risparmiando così il nostro prezioso tempo? Perché se ci sembra legittimo usare un programma di scrittura per condensare l’orrore della Shoah in una riga, allora probabilmente non siamo sulla strada giusta.

Un dibattito eterno

Il dibattito su come le tecnologie rischino di impattare negativamente sull’apprendimento è antico: probabilmente già Omero era accusato di creare una generazione di aedi sfaccendati che non avevano più necessità di imparare l’Iliade a memoria. Gli ottimisti ritengono che l’uomo possa adattarsi alle nuove forme di pensiero create dalla tecnica, usandole come un trampolino per un’ulteriore evoluzione.

Per contro c’è sempre chi ne è spaventato, perché le stesse semplificazioni offerte dalla tecnologia rischiano di limitare la profondità necessaria per capire la realtà. I nostri tempi sembrano dar ragione a questi ultimi: la nostra evoluzione non può vincere una corsa contro l’accelerazione tecnica. L’accesso a un quantitativo enorme di contenuti avviene a tale velocità che il rischio di tralasciare qualcosa di importante è altissimo. Una prospettiva che ci fa cadere in una nostalgia atrofizzante del tempo.

Sviluppo vs progresso

Proviamo, però, ad osservare il problema da una prospettiva alternativa. Chi ricorda il saggio del 1973 di Pasolini sull’Italia dello sviluppo senza progresso intuisce che c’è una distinzione tra lo “sviluppo” che è un fatto pragmatico ed economico e il “progresso”, visto, invece, come nozione sociale e politica. Trasportando queste definizioni nel linguaggio della pedagogia, possiamo considerare la tecnologia al centro dello sviluppo e l’uomo al centro del progresso. Per accompagnarsi al progresso umano, lo sviluppo tecnologico deve dunque offrire all’individuo la capacità di conoscere, comunicare e relazionarsi con i diversi livelli della complessità del mondo.

La soluzione può essere l’avanzamento di una cultura che, mentre ci aiuta ad afferrare e comprendere lo sviluppo, ci permetta anche di “frenare”, in modo da non perderci quanto rimane ancora escluso dal filtro della tecnologia. Possiamo farlo ad esempio recuperando quegli strumenti che, ad oggi, sono ancora intimamente umani, come la lentezza, il dubbio, l’attesa, l’ambiguità e persino quella che è probabilmente la più importante forza creatrice umana dopo la necessità: la noia.

Più consapevolezza

Parlare di nuove tecnologie, più che indurci alla nostalgia, dovrebbe, quindi, spronarci ad utilizzarle per aumentare la nostra consapevolezza, non per sostituirla. È probabile che un giorno anche la stessa tecnica potrà darci gli strumenti per vivere un’esperienza lenta e approfondita: una tuta sensoriale, ad esempio, sarà in grado di restituire sulla nostra pelle sensazioni che nessun libro di storia potrà mai trasmetterci. In attesa di ciò, abbiamo bisogno che alla “cultura dell’accelerazione” si accompagni la “cultura della frenata”.

Non si tratta di scegliere tra vie differenti, ma di sfruttarne ogni modalità. Possiamo percorrere il cammino di Santiago in auto, in bicicletta, a piedi e sarà sempre un pellegrinaggio a Santiago, ma ogni esperienza completerà la precedente.

L’importante è che andare più lenti non sia vissuto come una colpa, ma come la necessità di un umano che vuole diventare sempre più umano, cioè capace di sfruttare davvero lo sviluppo per allargare il progresso dei propri orizzonti.

E per questo non serve un’intelligenza artificiale, basta la nostra.

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