Secondo papa Francesco, con riguardo all’Ucraina, il coraggio di negoziare non è una resa, anche al fine di evitare che la situazione ulteriormente degeneri con gli esorbitanti costi conseguenti. Personalmente condivido. Di più: mi verrebbe da osservare che a sua volta il papa dimostra coraggio quando pronuncia parole che, nel clima bellicista che si è prodotto, sfidano il pensiero oggi dominante.

Essendo egli di sicuro consapevole che tali parole avrebbero suscitato dissensi e polemiche. A mio avviso, per paradosso, lui papa, dando prova di una ben intesa laicità. Ovvero di un pensiero critico, realistico, razionale. Mi spiego.

La realtà

Egli muove dalla considerazione oggettiva di dati di realtà. Due in ispecie: la situazione nel teatro di guerra, che fa segnare il lento, progressivo prevalere dell’armata russa, prevedibilmente non suscettibile di essere ricacciata indietro; il malcelato indebolimento di un concreto ed efficace sostegno da parte di Usa ed Europa. Le cui opinioni pubbliche e i cui governi sembrano assorbiti da dinamiche politiche interne.

Può dispiacere ma, ripeto, trattasi di dati di realtà. Rimuoverli non aiuta. Semmai riflette una certa ipocrisia, che si possono permettere solo gli osservatori comodamente distanti, non personalmente toccati dalla tragedia della guerra. Certo, non il papa che, dal primo giorno, a dispetto dei suoi critici, ha privilegiato il punto di vista delle vittime. Tutte.

Ma, oltre all’approccio laico (nel senso accennato), il punto di vista del pontefice può essere letto in un orizzonte meno estemporaneo, più organicamente ascrivibile all’evoluzione del magistero della Chiesa sulla pace e sulla guerra.

Possibilità di successo

Come è noto, essa è passata – cito solo i due estremi – dalla “dottrina della guerra giusta” (oggi suona come un ossimoro) alla tesi della legittima difesa dai confini sempre più rigorosamente circoscritti.

Non è un mistero che l’ingresso nell’era atomica, cioè delle armi di distruzione di massa, abbia rappresentato un punto di svolta per il magistero. Quando Giovanni XXIII, con la Pacem in terris, a inizio anni Sessanta, si spinse a proclamare che “alienum est a ratione bellum” (la guerra è estranea alla ragione).

Lo stesso Catechismo universale della Chiesa cattolica, che ne fissa nel modo più autorevole la dottrina “ufficiale”, enuncia con precisione le condizioni solo sussistendo le quali si può dare legittimità all’esercizio della legittima difesa.

Sono cinque:

  1. che essa sia dichiarata dall’autorità legittima,
  2. che ricorra una giusta causa,
  3. che rappresenti a tutti gli effetti una extrema ratio (ovvero che si siano prima esperite tutte le vie politico-negoziali),
  4. il principio di proporzionalità (ovvero che il male inesorabilmente arrecato non sia superiore a quello cui si intente porre rimedio) e
  5. infine le “chances di successo”.

Curiosamente questa ultima condizione è spesso trascurata. E invece conta nel caso in oggetto. Successo è forse parola impropria. Come si può parlare di successo con riguardo ad azioni belliche?

Ma il senso mi pare chiaro a fronte di una situazione che, sulla base di fondate ragioni, può solo peggiorare. Ove il fattore tempo (Francesco lo menziona esplicitamente) non è affatto indifferente, trattandosi con certezza di un tempo carico di morti, feriti e distruzioni. Ulteriori e inutili appunto senza chances di riuscita.

La pace ingiusta

A ben vedere, può essere letta come la weberiana “etica delle responsabilità” che si fa carico delle concrete conseguenze. Spesso si invoca la “pace giusta”. Chi mai potrebbe eccepire?

Ma attenzione: per quanto possa suonare spiacevole, per porre fine ai conflitti, spesso (sempre?), la pace in concreto possibile non è la pace integralmente giusta. Essa passa attraverso un compromesso che esige il sacrificio di qualcosa che, in punto di principio e in condizioni ordinarie, non sarebbe giusto sacrificare.

Non mi si fraintenda, ma spesso la sola pace possibile è una pace che sconta qualche ingiustizia, intesa la giustizia alla lettera come “dare a ciascuno ciò che gli è dovuto”.

È perfettamente legittimo discutere il punto di vista del papa. Osservo solo che, tra i suoi critici (non tutti), non è raro imbattersi in chi, trascorsi oltre due anni, si contenta di recitare lo stesso mantra e non sembra non porsi il problema di come uscirne. Nel mentre la tragedia si incancrenisce.

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