Il governo è in difficoltà, per il rallentamento dell’economia e la crisi dei migranti, e Meloni ritrova la sua vena più autentica, di estrema destra. Le opposizioni devono farsi trovare pronte, perché in una fase così delicata tutto può accadere. Questo vuol dire che bisogna mettere in piedi una coalizione. Su temi concreti, come si è cominciato a fare: il salario minimo e poi la sanità, i diritti civili e una comune prospettiva europea (un’Europa da rafforzare e riformare: riguarda anche la gestione dei migranti). Ma anche nelle prove elettorali: nei territori, ovunque possibile. Già da adesso, senza aspettare l’esito delle europee.

La decisione del Pd di appoggiare Marco Cappato nel collegio di Monza è per questo una buona notizia. Cappato è una personalità centrale di una forza alleata (+Europa, che alle politiche ha raggiunto il 2,6%), già appoggiato non solo dai Radicali, e da Azione, ma anche da SI-Verdi. Perdipiù è oggi la figura più riconoscibile di una battaglia, quella per l’eutanasia e in generale per la libertà di ricerca, molto meno di nicchia di quanto sembri.

Il «diritto alla dolce morte» riguarda tutti, in via diretta o indiretta: le persone che rischiano di trovarsi nella condizione di voler morire ma non poterlo fare, e di essere costrette a sopravvivere nel dolore per settimane, mesi o anche anni, sono e saranno sempre di più. Per non parlare dell’importanza della libertà di ricerca, in un Paese che rischia di cadere nell’oscurantismo integralista.

Cappato è anche, fra gli esponenti Radicali, uno dei più sensibili ai temi ambientali. Ovviamente è un candidato di coalizione, in un collegio uninominale: sostenendolo il Pd dà la giusta riconoscibilità a un alleato e riapre, a Monza, la partita con la destra.

Dentro i partiti

Ma se la coalizione deve essere larga e inclusiva, dai liberali progressisti ai 5stelle, il discorso non vale per i singoli partiti. Come ha scritto Ignazi, la «vocazione maggioritaria» applicata al Pd non ha molto senso e, se ce l’ha, è sbagliato. Un partito non è una coalizione e nemmeno una rivista culturale. Un partito, dopo aver discusso democraticamente in un congresso (come è stato fatto nel Pd), e fatti salvi i regolari momenti di aggiornamento in Direzione o nelle altre sedi (che ci sono tutti, nel Pd di Schlein), deve avere una linea chiara, offrire risposte e soluzioni precise: altrimenti perché i cittadini dovrebbero votarlo, per inerzia?

Nelle elezioni del 2022 è avvenuto l’opposto: coalizione ridotta ai minimi, fuori dal Pd, e massima varietà di posizioni all’interno del Pd, nelle sue liste. Dalle urne è uscito il peggior risultato della storia del Pd, sia in termini di voti assoluti (5,7 milioni alla Camera, meno anche di quanti ne aveva presi nel 2018, 6,5), sia in termini di esito politico complessivo: vittoria netta della coalizione più a destra della storia repubblicana (sebbene qui la responsabilità sia da condividere con le altre forze dell’opposizione). Non stupisce. Era una strategia contraria al buon senso e gli elettori l’hanno capito: tantissimi si sono astenuti.

In breve: diversità e pluralismo, pure all’interno di una minima cornice comune, devono essere garantiti nella coalizione; mentre un partito, dopo averne discusso in modo democratico e ovviamente aggiornandosi, deve presentarsi con una linea politica ben definita (e una classe dirigente conseguente). Sono, a ben vedere, semplici regole di buon senso. Difatti la coalizione di destra le applica senza problemi e vince a man bassa. L’opposizione riparta dal buon senso.

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