Mai come nell’ultima settimana la distanza tra due personaggi diversissimi come Joseph Ratzinger ed Edson Arantes do Nascimento ci è parsa minima. Un ultimo omaggio di folle immense ha collegato, in un singolare parallelismo, Benedetto XVI e Pelè nei due templi dove hanno celebrato i loro riti. Ma questo stesso accostamento ci offre anche una riflessione sulla costruzione dei nostri miti e su cosa comporta ispirarci ai modelli che propongono.

Mentre le persone che hanno seguito il feretro di Pelè hanno celebrato le qualità che lo hanno portato ad eccellere sul campo, a San Pietro l’omaggio della moltitudine era rivolto più all’eccezionalità della carica che alla persona che la ricopriva.

Non che Ratzinger non meritasse il soglio pontificio, lui che da figlio di un poliziotto era diventato uno dei più importanti teologi della Chiesa, ma la nostra società sembra aver fatto una scelta diversa quando si tratta di riconoscere il valore di un suo membro: l’idea che vada glorificato piuttosto l’impegno personale riversato nello sforzo di far emergere le proprie doti.

Barack Obama, Oprah Winfrey, Steve Jobs, Bruce Springsteen… le icone del nostro tempo che vogliamo imitare sono quelle il cui successo è percepito come il frutto del proprio talento e di un faticoso lavoro quotidiano verso l’eccellenza.

Questa ammirazione è un aspetto alla base della nostra preziosa cultura liberale: l’affermazione che tutti gli uomini liberi abbiano il diritto di tentare di costruire il proprio successo contiene, infatti, anche un profondo senso di eguaglianza.

Chiunque può provare a farcela, la differenza è solo nella tenacia che mettiamo nel far emergere le nostra capacità e lavorare duramente diventa il miglior investimento su noi stessi. Abbiamo cresciuto i nostri figli con questo obbiettivo: facendogli sperimentare decine di attività per scoprire il loro talento per poi spronarli a coltivarlo fino a brillare.

Un atteggiamento indispensabile al nostro progresso, ma con un conseguente impatto sociale: in una società competitiva è difficile rendersi conto che i vincitori esistono solo se qualcuno arriva secondo, terzo o ultimo, o che innumerevoli fattori possono bloccarci a prescindere dai nostri sforzi.

Il rischio è che il grido di “volere e potere” si ritorca contro di noi autosabotandoci e facendoci diventare prigionieri della nostra stessa forza di volontà. Fallire significa, infatti, essere bollati con la parola più dispregiativa del nostro tempo: mediocre.

E’ paradossale pensare che per Orazio l’aurea mediocritas elogiava il vivere nel “giusto mezzo”, ma nella sua epoca era la felicità il metro della realizzazione dell’individuo, per noi è l’eccezionalità: i mediocri hanno un’esistenza banale, i falliti si limitano alla sopravvivenza.

Questo ci porta a preoccuparci, giustamente, dei giovani che non cercano impiego, ma a trascurare la depressione che si sta diffondendo tra chi non regge più la condanna di essere semplicemente nella media.

Il funerali dei regnanti ci ricordano, però, che l’eguaglianza contenuta nel motto “performo dunque sono” ha dei limiti.

Se, ancora oggi, qualcuno nasce icona anziché diventarlo, allora vuol dire che la performatività non è l’unico metro di giudizio di un’esistenza e possiamo interpretare onestamente il nostro ruolo nella società senza sentirci in colpa quando arriviamo secondi.

Con il suo seguitissimo discorso di Natale, Carlo di Inghilterra ci ha ricordato che ci si può guadagnare rispetto e simpatia anche senza immolarsi sull’altare della propria eccezionalità.

Nel suo caso ci è voluta solo tanta pazienza. E chissà che questo non ci porti a capire che non è così male essere “mediocremente felici”.

© Riproduzione riservata