Raccontare il mondo, difendere i diritti”. La denominazione del premio in onore di Inge Schönthal Feltrinelli tiene insieme due azioni, una culturale e l’altra politica, di enorme importanza. Nell’esperienza di Amnesty international, senza il racconto del mondo, la difesa dei diritti umani sarebbe compromessa. Senza la difesa dei diritti, il racconto del mondo sarebbe più povero.

La storia di Patrick Zaki, che tra 20 giorni torna nell’aula di un tribunale antiterrorismo del Cairo, è esemplare. È la storia di un ragazzo venuto a Bologna per il desiderio di apprendere come raccontare il mondo, per poter meglio difendere i suoi diritti. Sappiamo cosa è successo in seguito: un arresto, 20 mesi di prigione dura, la scarcerazione e ora il limbo dell’attesa. Intorno a Patrick è nata la più grande campagna del XXI secolo su una persona privata dei suoi diritti. Amplificata dal racconto (giornalistico, letterario, artistico) di chi ha voluto prendervi parte. Se non ci fosse stato il racconto di Patrick, avremmo potuto difendere i suoi diritti in un modo così potente? La risposta, temo, sia negativa.

Se le immagini dei corpi straziati di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi non fossero state rese pubbliche, quanto saremmo lontani oggi dalla verità e dalla giustizia? Molto. Se Domani non avesse raccontato giorno per giorno, nell’estate 2021, la storia di Ikram Nazih (i lettori e le lettrici ricorderanno la vicenda della studentessa italo-marocchina, condannata a tre anni per aver condiviso su Facebook un’immagine considerata blasfema), il nostro governo sarebbe stato così sollecito nel chiedere a quello del Marocco la sua scarcerazione? No.

In definitiva, quanta parte del mondo rimarrebbe oscurata se non ci fosse il racconto scritto o per immagini, se non ci fosse quel rumore che è la migliore arma per squarciare il silenzio che impongono i regimi autoritari? Quasi tutta.

Il falso imposto come vero

Ecco perché raccontare il mondo è fondamentale per difendere i diritti. Certo, non è facile e spesso porta a subire gravi conseguenze. I 61 anni di campagne di Amnesty international in difesa dei diritti umani sono pieni di storie di giornaliste e giornalisti, scrittori e scrittrici, artisti e artiste, disegnatori e disegnatrici, registi e registe che hanno trascorso anni in carcere o che sono scomparsi nel nulla o sono stati assassinati.

Pensiamo al grande regista iraniano Jafar Panahi, che le autorità iraniane hanno nuovamente arrestato di recente – insieme ai colleghi Mohamed Rasoulof e Mostafa al Ahmad – per fargli scontare una condanna a sei anni per «propaganda contro il sistema».

Soffermiamoci su questo “reato”, quello di «propaganda contro il sistema». È una creazione di sapore orwelliano. Così come un altro “reato”, quello di «diffusione di notizie false». Raccontare la verità, per i regimi autoritari, è “propaganda” e “notizie false”. Il vero è obbligato per legge a diventare falso perché il falso possa essere imposto come vero.

Durante la pandemia da Covid-19 in almeno 30 stati sono state introdotte leggi per punire i giornalisti e gli operatori sanitari che denunciavano l’inefficacia delle misure di contrasto o la carenza di dispositivi di protezione individuale come di posti in terapia intensiva. Di nuovo, accusati del falso per aver raccontato il vero.

Per raccontare il mondo, dunque, occorre coraggio ma serve anche la curiosità. Dote che apparteneva certamente a Inge Schönthal Feltrinelli e ad altre persone che hanno viaggiato per conoscere o – per citare Gabriel García Márquez – hanno vissuto per raccontare. Apparteneva anche a persone come Antonio Russo, Ilaria Alpi, Milan Hrovatin, Enzo Baldoni, Andrea Rocchelli, Andrei Mironov, trucidati non perché si fossero trovati “nel posto sbagliato” ma, al contrario, esattamente perché si trovavano nel posto giusto, dove accadono i fatti, per raccontarli.

Scegliere il potere

Naturalmente si possono fare scelte diverse, più comode e rassicuranti: mettersi al servizio dei poteri, scegliere l’oblio, ricorrere all’autocensura. Milan Kundera, nei suoi capolavori, ha descritto questo atteggiamento nel periodo successivo all’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968 come il «tornare a essere bambini», la dimensione in cui non c’è memoria perché non c’è passato. Come sappiamo, senza la memoria (che è anche e soprattutto racconto) non c’è giustizia, non è possibile difendere i diritti.

Ma torniamo a chi ha il coraggio di difenderli e raccontare il mondo. Se la persecuzione “novecentesca” nei confronti di scrittori, giornalisti e artisti non è in diminuzione, ciò che sta aumentando in modo spaventoso è il controllo del dissenso online.

I regimi repressivi, sin dalla nascita della rete, stanno destinando enormi risorse economiche alla sorveglianza dei profili e degli strumenti di chi racconta il mondo sulle piattaforme social. Lo scandalo esploso nel 2021 a proposito dello spyware Pegasus (un software realizzato dall’israeliana NSO Group col quale sono stati spiati tanti giornalisti, difensori dei diritti umani e attivisti) ha evidenziato la diffusione di questa pratica e l’assenza di strumenti giuridici per contrastarla.

Nelle ultime settimane, i tribunali antiterrorismo (anche questa definizione è orwelliana, poiché si tratta di corti che giudicano le opinioni) dell’Arabia Saudita hanno emesso due condanne, rispettivamente a 34 e 45 anni di carcere, nei confronti di due donne che avevano pubblicato o ripubblicato contenuti «lesivi del tessuto sociale» o «contro la sicurezza dello stato».

Questo scenario, di una rete che diventa una rete a strascico a pesca di dissidenti, lo aveva preconizzato Jamal Khashoggi, il giornalista e dissidente saudita trucidato il 2 ottobre 2018 all’interno del consolato saudita di Istanbul. Torno alla domanda iniziale: se non ci fosse stato il racconto di Patrick, avremmo potuto difendere i diritti di Patrick? E come potremmo difendere i diritti di un gruppo di attivisti tra i più romantici di questi anni, i “partigiani delle ferrovie” della Bielorussia, se non raccontassimo le loro azioni?

I “partigiani delle ferrovie”

Facciamolo, allora. I “partigiani delle ferrovie” sono capistazione, macchinisti, addetti agli scambi e al carico dei vagoni che cercano d’impedire l’afflusso di armi, veicoli blindati e personale militare russo in Ucraina attraverso le ferrovie dello stato alleato.

Bloccano la circolazione mandando in tilt le centraline automatiche, deviano scambi in modo che i carichi di morte finiscano su un binario altrettanto morto, rifiutano di condurre i treni quando è il loro turno. Per il governo bielorusso sono «terroristi» e per loro è prevista la pena di morte. A me sembrano, a proposito di locomotive, «eroi tutti giovani e belli». Sono storie come queste che vorrei partecipassero al premio “Raccontare il mondo, difendere i diritti” in onore di Inge Schönthal Feltrinelli. Un premio che, già dal titolo, dimostra di essere estremamente necessario.


Mercoledì 7 settembre 2022 alle 12.30, fondazione Giangiacomo Feltrinelli e gruppo Feltrinelli presentano, durante la giornata inaugurale del Festivaletteratura di Mantova, la prima edizione del premio “Inge Feltrinelli. Raccontare il mondo, difendere i diritti” in onore di Inge Schönthal Feltrinelli. Alla presentazione intervengono il presidente Carlo Feltrinelli, Alessandra Carra (mmministratrice delegata del gruppo Feltrinelli), Massimiliano Tarantino (direttore di fondazione Giangiacomo Feltrinelli), Simonetta Agnello Hornby (scrittrice), Simonetta Fiori (giornalista di Repubblica), Gad Lerner (giornalista del Fatto Quotidiano).

Il Premio, che si avvale della collaborazione dei tre soci promotori BookCity, AIE e Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, si rivolge alle donne e alle nuove generazioni le quali, attraverso libri, racconti, inchieste e reportage, rendono la parola e la fotografia veicolo di partecipazione civile, in difesa dei diritti umani.

Il premio Inge Feltrinelli si suddivide in tre categorie:

  • Diritti violati: si rivolge a donne giornaliste di ogni età e nazionalità e ad autrici di lavori che combinano reporting documentario in forma scritta e reportage fotografico che mettono al centro la denuncia dei soprusi e la difesa dei diritti fondamentali della persona, cardine imprescindibile su cui costruire una convivenza fondata su pace, libertà e giustizia. 
  • Diritti in costruzione: si rivolge a scrittrici di genere femminile di ogni età e premia opere di fiction e non fiction scritte o tradotte in lingua italiana – già pubblicate – che si concentrano sulla denuncia dei soprusi e l’emersione e promozione di nuovi diritti e nuove forme di rivendicazione.
  • Diritti in pratica: la terza categoria è dedicata alle nuove generazioni, nello specifico alle scuole secondarie di secondo grado. Con l’obiettivo di stimolare percorsi di riflessione e creatività sul tema dei diritti umani, il 7 settembre si apre una Call for proposal e a marzo verranno dunque premiate le idee progettuali che diventeranno inchieste podcast realizzate col supporto della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Da sempre capaci di percepire in modo inedito e spesso empatico storture, iniquità e prepotenze, qui sono le ragazze e i ragazzi a mettersi in gioco per guidare il cambiamento.

I vincitori e le menzioni speciali saranno decretati da una giuria internazionale.

A definire la cinquina dei finalisti della prima categoria sarà un comitato composto da Francesca Mannocchi (giornalista della Stampa), Gad Lerner, Arianna Ciccone (co-fondatrice e direttrice del Festival internazionale del giornalismo di Perugia), Giulia Zoli (giornalista di Internazionale), Paola Caridi (saggista e storica), Monika Bulaj (fotografa e giornalista), Simonetta Gola (Emergency), Fabio Lo Verso (giornalista) e Lorenzo Bagnoli (co-Direttore di Irpimedia).

A definire la votazione per la seconda categoria contribuirà anche una giuria popolare.

L’8 marzo 2023 si terrà la cerimonia di premiazione della prima edizione del premio Inge Feltrinelli e la sede della fondazione Feltrinelli in Viale Pasubio ospiterà l’evento dedicato alle vincitrici delle tre categorie.

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