Il divieto ai giornalisti di guardare e quindi di raccontare ciò che accade alla frontiera polacca, ed europea, con la Bielorussia, è una scelta politica. Lo prova, se mai fosse necessario, una affermazione recente del leader del partito di governo Pis. Jaroslaw Kaczysnki sostiene che coi giornalisti le guerre si perdono, e che è per i giornalisti che è stata persa la guerra in Vietnam. 

L’opinione pubblica è in effetti capace di dissenso, ed è proprio per questo che l’attività giornalistica è una articolazione fondamentale del processo democratico: perché consente di controllare il potere, quindi anche di criticarlo. E a chi legge, di dissentire con esso.

Il divieto di raccontare

Invece la Polonia ha imposto una “zona cieca”. Lo ha fatto finché ha potuto con lo stato di emergenza: come questo giornale ha denunciato già tempo fa, Varsavia si è garantita un vero e proprio black out informativo. Con la motivazione formale della «minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico», e con quella politica che poi Kaczynski ha palesato, il governo ha chiesto al presidente della repubblica Andrzej Duda, eletto con il sostegno del Pis, di imporre nei territori al confine lo stato di emergenza. Fino a tre chilometri dalle zone di confine, vige una zona d’ombra dove è impedito a giornalisti, parlamentari e ong qualsiasi controllo sul rispetto dei diritti al confine. Come ha raccontato a Domani un mese fa Maciej Konieczny, il parlamentare di sinistra (Razem) che si era recato al confine all’esordio della crisi, «neppure noi parlamentari ci possiamo avvicinare. Neppure un corrispondente di guerra può». Finché ha potuto, guardare, Konieczny ha sollevato il tema dei diritti da rispettare e ha testimoniato «coi miei occhi i gruppi di richiedenti asilo bloccati dentro poche centinaia di metri, tra le due file di militari, e la situazione che si inaspriva». Ora fa il conto dei morti al confine tramite le notizie che filtrano, ma sono parziali e incomplete. 

L’eccezione diventa normalità

I media indipendenti come Onet, OKO.press, Gazeta Wyborcza, hanno sfidato la decisione del governo e denunciato che «stando alla convenzione europea sui diritti dell’uomo, siglata dal nostro paese, tutti hanno il diritto di avere e dare informazioni senza interferenze delle autorità». Ma al governo è importato poco.

Anzi: per quando lo stato di emergenza terminerà, sta già apparecchiando un piano. Il 30 settembre infatti lo stato di emergenza è stato protratto per due mesi, ma poi non sarà più possibile, e perciò nei prossimi giorni arriverà in aula un nuovo progetto. L’ipotesi che prende piede è quella di «regolamentare» la presenza dei giornalisti: non potendo più impedirla tout court, il governo pensa di assoggettarla a determinate regole, e il comandante della guardia di frontiera dovrà dare il suo permesso perché i nostri colleghi giornalisti possano – o non possano – lavorare.

Gli arresti e le proteste

Nel frattempo oggi due giornalisti che hanno sfidato il divieto sono stati arrestati. La notizia è stata diffusa da Tvp: due giornalisti di RT France (una filiale di Russia Today) sono stati arrestati a Usnarz Górny nella zona coperta dallo stato di emergenza. Tomasz Krupa, portavoce della polizia, ha confermato la notizia. «Hanno informato la polizia che erano giornalisti di RT France e che avevano attrezzature allestite a Usnarz. Hanno spiegato che erano venuti a fare un reportage dalla zona coperta dallo stato di emergenza», ha fatto sapere sempre la polizia, ribadendo che i due non avevano il permesso di star lì.

Perché i giornalisti devono poter guardare, raccontare, vigilare? Kamil Turecki di Onet ha elencato sei ragioni, sperando di persuadere anche il suo governo che il black out non conviene a nessuno: «Se i giornalisti non sono presenti sul posto, le persone sono condannate a frammenti di informazioni e voci che danno origine a speculazioni. Il risultato è che non è Varsavia, ma Minsk, che impone la narrazione, e le informazioni al mondo su ciò che sta accadendo al confine polacco-bielorusso provengono solo dai media di propaganda bielorussi». Daniel Tilles, che dirige Notes from Poland e che traduce quel che accade in Polonia per un pubblico internazionale, nella sua arringa contro il divieto arriva a conclusioni analoghe: «Questo black out non è soltanto un affronto alla libertà di informazione, ma non aiuta neppure gli interessi della Polonia» perché così si è in balia della propaganda.

Facciamo rete, non muri

C’è una ragione che bisogna aggiungere da Roma. E da tutte le capitali e le periferie d’Europa. Il confine polacco è il confine d’Europa. La libertà di informare dei colleghi polacchi è anche la nostra. Mentre la Commissione e il Consiglio europeo discutono sui soldi coi quali andrà finanziato il nuovo muro ipertecnologico alla frontiera, che Kaczynski e i suoi hanno già disposto, non arrivano interventi altrettanto solerti e veementi per garantire l’Europa dei diritti, a cominciare dal diritto all’informazione. 

Da quando è nato, Domani ha dato voce alle storie dei giornalisti polacchi e ungheresi la cui libertà e indipendenza è a rischio, perché la loro libertà è la nostra. Ogni giorno il nostro lavoro si svolge in collaborazione con colleghi, reti, testate di tutta Europa.

Anche stavolta, esprimiamo solidarietà e facciamo rete, perché è fare rete, e non issare muri, che definisce davvero il carattere della nostra “European way of life”, come la chiama von der Leyen.

© Riproduzione riservata