Finite le vacanze, il futuro di milioni di ragazzi e ragazze è avvolto ancora nella massima incertezza. Non il loro avvenire lontano ma il futuro molto prossimo del ritorno sui banchi di scuola.

Nell’anno del Next Generation Eu, che fin dal nome richiama l’impegno comune a «riparare i danni causati dalla crisi e preparare un futuro migliore per la prossima generazione», la mancata attenzione ai bisogni e ai desideri degli studenti è un segnale che va in direzione contraria.

È una manifestazione di scarsa responsabilità verso coloro che dovrebbero, secondo le intenzioni, essere il target principale dei piani di ripresa.

Il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno ha richiamato la politica agli obblighi verso le giovani generazioni e indicato nel calo ulteriore delle nascite il segnale allarmante dell’«incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità».

Di generazioni future si parla però in questi giorni soprattutto a proposito del rischio di addossare ai cittadini e alle cittadine di domani il peso del debito pubblico che il paese va a contrarre con i nuovi fondi.

La questione interessa non solo i politici e i tecnici, ma anche i filosofi, impegnati da tempo a riflettere sulle possibilità e i criteri di una «giustizia intergenerazionale».

Semplificando, la domanda è: quanta spesa in deficit è giusto che facciamo oggi se vogliamo difendere gli interessi futuri di chi non ha ancora voce?  

La risposta più intuitiva è che il modo migliore per adempiere alle obbligazioni morali che abbiamo verso le prossime generazioni sia tenere sotto controllo la spesa e imporre vincoli di bilancio. Non è affatto detto, però, che questa sia la risposta giusta.

Potremmo infatti stabilire che, per assicurare un futuro ai nostri nipoti, sia altrettanto e forse più importante migliorare la condizione di chi vive nel presente, inclusi i nostri figli. E che questo imponga di tenere insieme la preoccupazioni di giustizia intergenerazionale con quelle di giustizia «intragenerazionale», cioè con le questioni redistributive che hanno a oggetto la riduzione delle diseguaglianze tra i gruppi sociali.

Non si tratta di spendere poco, ma di spendere bene. Investire per la crescita senza la dovuta attenzione alle sperequazioni di reddito e di ricchezza può infatti produrre una crescita ingiusta.

Mentre ridurre o vincolare la spesa pubblica, a supposto vantaggio delle generazioni a venire, può finire per aggravare le diseguaglianze presenti e future avvantaggiando, di fatto, solo una piccola parte di quelle generazioni – la più ricca, la più protetta.

Ci sono poi ambiti in cui il legame tra giustizia intergenerazionale e intragenerazionale si manifesta in modo cruciale.

Uno è proprio quello dell’istruzione: il rallentamento e l’abbandono scolastico di ragazze e ragazzi che vivono in condizione di maggiore svantaggio rischia di avere come ricadute l’impoverimento e la mancata mobilità sociale, determinando anche il futuro dei loro figli.

Un’altra questione paradigmatica è quella della denatalità, che mette in gioco la sopravvivenza stessa della collettività. I demografi insegnano che nei paesi a sviluppo avanzato la fecondità è strettamente legata alla parità di genere, al benessere e all’occupazione femminile, quindi diminuisce con l’aggravarsi delle diseguaglianze. Intervenire ora con ingenti investimenti nei servizi per l’infanzia, nell’occupazione femminile e nelle politiche della cura significa sostenere il desiderio di genitorialità di donne e uomini di oggi, ma anche pensare molto concretamente alle generazioni di domani.

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