Sembra esservi un’opinione generalmente contraria al cosiddetto “esperimento” inglese, cioè dilazionare la somministrazione della seconda dose dei vaccini contro il Covid-19. La proposta, portata avanti dalle autorità inglesi competenti (il Joint Committee on Vaccines and Immunization), consiste nel portare il tempo di attesa tra la prima e la seconda dose da 21 giorni (o 28, a seconda del vaccino), raccomandati e testati dai produttori, fino a 12 settimane. In questo modo, tutte le dosi di vaccino disponibili possono essere usate subito, senza necessità di tenere di scorta alcune dosi per la seconda iniezione.

I vantaggi

Utilizzando questa strategia, invece di quella standard della doppia iniezione nel giro di 21 giorni, viene raggiunto un potenziale vantaggio. Si ottiene infatti un’immunizzazione parziale di un maggior numero di persone in tempi più brevi, il che può essere particolarmente utile visto anche il ritardo con cui le dosi stanno arrivando dalle industrie.

In base a un calcolo epidemiologico, proteggere al 50-60 per cento (la protezione garantita da una sola iniezione) il doppio di persone in un tempo breve (diciamo i prossimi sei mesi) sarebbe meglio che proteggerne la metà al 90-95 per cento.

Se sul piano epidemiologico il ragionamento può anche convincere, ha tuttavia numerose falle, e infatti l’ente regolatore europeo, l’Ema, la Food and Drug Administration americana e le industrie produttrici hanno tutte espresso un parere negativo su questa modalità. A parte alcune voci in controtendenza, anche in Italia l’esperimento inglese per il momento non sembra avere molti sostenitori.

Tre problemi

Primo, il ragionamento si basa su un numero limitatissimo di osservazioni nel corso delle sperimentazioni che sono state condotte. Il problema, in particolare, è che se è vero che anche la prima dose conferisce un’immunità, non si sa quanto a lungo questa duri. Nella prima fase della sperimentazione di Moderna, dopo la prima dose è stata verificata una risposta anticorpale, che però è declinata sostanzialmente durante i 119 giorni di follow-up (gli anticorpi neutralizzanti si sono ridotti del 50-75 per cento nelle persone con più di 56 anni).

Secondo problema: una simile strategia costituirebbe un precedente unico, cioè il cambiamento del dosaggio di un farmaco che non tiene conto dei risultati delle sperimentazioni cliniche.

C’è anche un terzo argomento, teorico ma non troppo. Questo argomento suggerisce che una reazione immunitaria solo parziale, come quella prodotta in seguito all’iniezione della sola prima dose, possa facilitare la selezione di ceppi virali mutanti e resistenti. Si tratta dello stesso principio che, ad esempio, sconsiglia l'eccessivo uso di antibiotici o il loro utilizzo per un tempo inferiore a quello raccomandato.

È lo stesso fenomeno che potrebbe essere dietro alla nascita della variante B117 del virus, quella particolarmente contagiosa e divenuta ormai prevalente nel Regno Unito. La B117 è forse originata da un paziente immunodepresso cronicamente infetto. Dunque la scelta inglese potrebbe perfino essere pericolosa. Si noti che quanto detto vale per i vaccini a Rna (Pfizer e Moderna), una tecnologia interamente nuova, e non per quello AstraZeneca, che è a Dna.

 

© Riproduzione riservata