Mia figlia dice che vorrebbe vivere negli anni Cinquanta. Non mi è chiaro cosa significhino per lei, gli anni Cinquanta. Il decennio di un secolo in cui non è nata, il decennio in cui i suoi nonni, secondo lei fortunati, erano bambini.

Mi spiega che, come si può vedere dalle immagini dell’epoca, le persone a quel tempo si vestivano bene. Non come oggi. Oggi tutti si vestono male, mettono la tuta per uscire di casa.

Negli anni Cinquanta le persone avevano pochi abiti, e andavano dal sarto. E soprattutto la vita era più autentica. “In che senso?” Nel senso che, dice, si facevano molte cose a mano. Si camminava di più. Tutto era più difficile. “Intendi dire che le cose difficili sono più autentiche?” Mi guarda, sorride. “Ah, ho capito. Vuoi scrivere un articolo.” E l’intervista salta per aria.

Penso a “WALL-E”, un film di animazione del 2008, ambientato in un’epoca futura. Gli esseri umani hanno da tempo abbandonato il pianeta Terra, talmente inquinato da essere ostile a qualsiasi forma di vita. Abitano in un’enorme nave spaziale, e vivono seduti su comodissime poltrone volanti.

L’immobilità e l’assenza di gravità hanno indebolito la loro muscolatura al punto da rendere il corpo simile a un budino, per questo non si alzano mai dalla poltrona, e sono obesi.

Hanno un’aria gioviale, come se l’immobilità fosse una normalità possibile e persino piacevole, e le loro emozioni sembrano simili alle nostre, non certo meno autentiche. Ma la loro vita fisica è annullata. Se una persona cade dalla sua poltrona volante, subito arrivano dei robot a raccoglierla e a rimetterla seduta.

Ogni poltrona è dotata di uno schermo con il quale le persone comunicano e vivono, e si divertono. Un po’ come facciamo già adesso, quando trascorriamo molte ore di fronte al computer, al telefono, alla televisione.

In effetti sono passati 15 anni dall’uscita del film, e si ha la sensazione che lo scenario, che allora sembrava estremo, contenga del realismo. I bambini di oggi sanno di appartenere a un’epoca in cui i cambiamenti estremi potrebbero essere molto rapidi?

Forse la loro generazione crescerà con la sensazione, giusta o sbagliata, di essere l’ultima a vivere in una maniera abbastanza simile a quella degli antenati.

Ossessione autenticità

“Autenticità” è una parola ricorrente nel nostro tempo. Dire “esperienza autentica” è un vezzo del marketing. Dire che una persona è autentica (nel suo soffrire, nel suo mostrarsi) è un vezzo dei social (e dunque del marketing). Autentico è ciò che non è contraffatto. Autentico è un racconto che “corrisponde esattamente alla realtà e perciò merita fede” (Treccani).

Mi interessa questa definizione, che parla di corrispondenza alla realtà. I corpi degli esseri umani immobili sulle poltrone volanti, nel film che citavo, sono una conseguenza della realtà in cui si trovano. Non possiamo dire che non siano autentici: esistono, abitano lo spazio. Sono innegabili.

Come sempre, quando ci si mette a ragionare intorno alla definizione di realtà, si finisce per sbattere la testa contro un muro.

Autentico è, invece, quello che corrisponde a un’idea primitiva dell’umano, anche se questa idea non esiste più? Non usare gli schermi, guardare una realtà che possiamo afferrare e raggiungere? Usare le mani, toccare le persone? Muoversi adoperando i nostri muscoli, non solo i mezzi di trasporto o gli occhi o l’immaginazione? Eppure gli schermi sono profondissimi, nel loro darci accesso a esperienze infinite. Queste esperienze sono parte del tessuto della realtà.

Penso ai film di animazione di Miyazaki. Storie bellissime ambientate in un mondo reale e magico insieme.

I personaggi vivono esperienze che nella nostra quotidianità non viviamo, come l’incontro con gli spiriti della foresta, oppure la visita a una città incantata dove è impossibile muoversi senza finire in un incantesimo.

Eppure, se dovessi descrivere qual è la materia prima dei film di Miyazaki, direi l’autenticità. Senza sapere bene perché. Ponyo, per esempio, è la storia di un pesce che vuole trasformarsi in una bambina. Per farlo vive molte avventure, fra cui quella di assaggiare una zuppa buonissima, preparata dalla mamma di un bambino umano.

La gioia di Ponyo al cospetto di questo cibo è incontenibile, tanto che quando vediamo la scena ci viene fame (io ho persino ricreato la ricetta a casa). Miyazaki, pur operando nel mondo magico, è lontano dalla contraffazione della realtà, perché nel suo disegno animato troviamo un richiamo preciso non tanto al gesto primitivo, quanto alle emozioni più profonde, che forse sono senza tempo e senza storia. Come la gioia del cibo preparato da altri, per noi, con amore.

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