Il Piano nazionale di ripresa e resilienza di Draghi non menziona più il fine ecologico della prevista riforma fiscale, sulla cui proposta di legge delega il governo non ha rispettato la data di fine luglio.

Il fisco è uno strumento fondamentale per fornire un sistema di incentivi/disincentivi coerenti con la decarbonizzazione. Quello italiano, pur con un’elevata incidenza di imposte “ambientali”, privilegia la tutela di innumerevoli rendite di settore rispetto all’efficacia dei segnali a favore dell’ambiente

Una riforma fiscale che compia un “reset” della spesa fiscale (cioè dei sussidi fiscali, in primis quelli dannosi all’ambiente già individuati dal Governo) è indispensabile sia alla conversione ecologica sia a una sostenibilità di bilancio che non colpisca come al solito soprattutto i redditi da lavoro dipendente.

Tra le riforme di accompagnamento citate nel capitolo due del Pnrr è prevista una riforma del sistema fiscale, basata su una legge-delega al parlamento che il governo avrebbe dovuto predisporre entro lo scorso luglio, ma non c’è menzione nel testo di una sua connotazione ecologica.

Se questo elemento venisse meno, si tratterebbe non solo di una clamorosa assenza nelle politiche di decarbonizzazione da parte del governo Draghi, ma anche della perdita di un insieme di strumenti indispensabili a garantire un fisco più equo e meno nemico dell’innovazione sostenibile.

La semplificazione delle accise

Non c’è alcun motivo per cui le avanguardie europee in questo settore, cioè la predisposizione della plastic tax e la discussione di una su carbon tax di frontiera, non diano parallelamente il La a iniziative autonome degli Stati Membri in termini di evoluzione ecologica del fisco. Anzi, abbiamo l’opportunità di usare i segnali da Bruxelles come possibili linee di sviluppo per una riforma. L’aggiornamento della Direttiva Ue sulla tassazione dei prodotti energetici, per esempio, è un’occasione di semplificazione delle accise che tenga conto delle emissioni dannose ed eventualmente del contenuto energetico e che nello stesso tempo superi altre discriminazioni distorsive ingiustificabili sul piano ecologico.

L’Italia, presidente di turno del G20, nell’ambito di un simposio sul fisco tenutosi a Venezia il 9 luglio 2021, ha richiesto a Ocse e Fondo Monetario internazionale di preparare un rapporto sull’uso delle politiche fiscali per accompagnare la transizione ecologica. È ragionevole attendersi che terrà in conto anche gli studi già disponibili riguardo alle necessità nazionali di adeguamento, come il Catalogo del Ministero della Transizione Energetica citato più sotto.

Come appare il nostro sistema fiscale se lo confrontiamo con quello degli altri Paesi Ocse? Sbilanciato nel colpire i redditi rispetto ai consumi. Con aliquote elevate nella tassazione dei redditi e nei contributi sociali sul lavoro dipendente

Con un ammontare elevatissimo di spesa fiscale (gettito perso in regimi fiscali di favore), pari per la sola componente erariale a circa il 13 per cento di tutte le entrate tributarie e a circa il 3,5 per cento del Pil nel 2019 secondo la Commissione per le spese fiscali.

In altri termini: alte tasse, soprattutto sui redditi da lavoro, ma con tanti sconti ed eccezioni che rendono il sistema bizantino e con distorsioni di cui a volte è impossibile comprendere il senso. Distorsioni presenti anche sull’Iva, la principale imposta indiretta, che ha ben 3 aliquote di cui è difficile vedere la coerenza con politiche redistributive o ecologiche comprensibili, visto che non mancano né beni voluttuari né dannosi all’ambiente tra le categorie privilegiate (perché mai, per esempio, l’energia usata nell’industria estrattiva dovrebbe avere un’Iva di favore?).

Chi paga

E in termini di incidenza quantitativa delle imposte ecologiche, come si colloca oggi il nostro fisco?

Nel nostro paese il gettito delle imposte che l’Ocse considera “ambientali” è maggiore che nella media europea (il 3,3 per cento del Pil 2017 contro una media UE-28 del 2,4 per cento). Ma un’analisi qualitativa di queste imposte e dei regimi di favore associati mostra incoerenza con gli obiettivi di transizione ecologica. Per esempio: le accise sui carburanti – in media molto alte in Italia – cambiano a seconda degli usi, dei settori, delle categorie senza alcun riferimento al danno ambientale effettivo. Imposte, quindi, sì in media pesanti in settori ambientalmente critici, ma disegnate più per garantire gettito dalle categorie meno problematiche in termini di reazioni che per responsabilizzare correttamente consumatori e imprese, con l’effetto finale di disincentivare all’efficienza e all’innovazione proprio le categorie che è fondamentale vi investano di più.

Uno strabismo, questo dell’uso incoerente di imposte potenzialmente ecologiche, che invade anche la “parafiscalità” delle bollette energetiche, che se da un lato finanzia i sussidi alle fonti rinnovabili per una decina di miliardi all’anno, dall’altro calmiera il prezzo dell’energia per alcune categorie di consumatori, in un contesto di concorrenza fiscale tra le economie manifatturiere europee sempre sul filo degli aiuti di Stato e al quale è pressoché impossibile sottrarsi senza un processo di allineamento UE.

Proprio i sussidi alle fonti rinnovabili meritano un’ulteriore menzione: gran parte del loro ammontare dipende da norme non più applicabili ai nuovi impianti, con la conseguenza che il volume di questi trasferimenti si ridurrà rapidamente, condannando – a norme vigenti – il sistema parafiscale (e più in generale quello dei segnali economici pubblici) a diventare sempre meno favorevole alle fonti rinnovabili.

Sempre nel settore energetico, la fiscalità e la parafiscalità sollevano preoccupazioni in termini di rischi di effetti regressivi, vista la maggior incidenza della spesa energetica per le famiglie con più basso reddito disponibile. Una questione rilevante, ma che non dovrebbe essere risolta alterando su base soggettiva – o ancora peggio indiscriminatamente – il prezzo dell’energia, bensì integrando la “povertà energetica” tra gli indicatori da considerare per l’attivazione di politiche redistributive, oppure modulando sulla base del reddito l’accesso a sussidi per l’efficientamento.

Così, tra esigenze di redistribuzione, cabotaggio fiscale intraeuropeo, politica industriale, nel nostro fisco le imposte “ambientali” lo sono spesso solo in termini di etichetta. Difficilmente sarà una “rivoluzione” verde quella del Governo Draghi senza un fisco adeguato a sostenerla.

E difficilmente la ripresa post covid, per un Paese indebitato al 160 per cento del Pil, potrà basarsi su un fisco ancora punitivo sui redditi, oppure che non metta al centro la decarbonizzazione eliminando le barriere fiscali all’innovazione ecologica, cioè quei trattamenti di favore che incentivano comportamenti dannosi all’ambiente e che secondo il relativo Catalogo dello stesso governo costavano nel bilancio 2018 oltre 18 mld/a in maggiori tasse pagate soprattutto dalle categorie non soggette ai regimi di favore (per esempio il comune mortale che fa benzina, magari dopo aver investito in un’auto ibrida).

I danni

Qualunque riforma fiscale che non sia una riduzione della pressione per tutte le categorie prevede nel breve periodo categorie potenzialmente danneggiate. Per questo sono necessarie comunicazione e coinvolgimento pubblico generale e nello specifico di queste categorie, a cui la riforma dovrebbe fornire la possibilità di accedere a vantaggi alternativi ma a tempo determinato e non dannosi all’ambiente. Per esempio: regimi di vantaggio nelle accise potrebbero tramutarsi in contributi a fronte di investimenti in efficienza o riduzione di impatto ambientale, una logica coerente con quanto nell’estate 2020 l’allora Ministero dell’Ambiente aveva messo sì in consultazione, ma con timidezza, minima pubblicità e scarso tempo per fornire contributi.

Speriamo, ora, che il Parlamento, le cui commissioni finanze riunite hanno nel frattempo diffuso un’indagine conoscitiva che menziona la necessità di un’impostazione verde della riforma, non si limiti a ratificare la proposta di legge delega che il Governo avrebbe dovuto predisporre entro il 31 luglio (delegando se stesso, di fatto), e che aggiunga questa fondamentale direzione alla riforma. Una direzione indispensabile a fornire i segnali giusti agli investimenti privati per la decarbonizzazione, e che per la gente comune, e ancor più per consumatori e aziende più attenti alla sostenibilità, potrà tradursi in risparmi tangibili.

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