Il caso sollevato due settimane fa da Rula Jebreal, quando ha ritirato la sua partecipazione a Propaganda Live in protesta per la scarsa rappresentanza femminile, non si è chiuso con il discorso (un po’ impacciato) di Diego Bianchi a difesa della trasmissione de La7. Non solo perché, come tanti hanno notato, la pezza è apparsa peggiore del buco, con un richiamo alle «competenze» che è sembrato certificare lo sguardo miope dei creatori del programma verso i saperi e i talenti femminili. Ma anche perché si tratta di un caso capace di illustrare una questione più ampia e generale: quella della presenza delle donne nella sfera pubblica in Italia.

È stato inevitabile, quindi, che il venerdì successivo il problema tornasse a galla, ed è avvenuto – come in un’imprevista recita a soggetto – con attori capaci di rappresentare tutte le parti in commedia. C’era Barbara Serra, giornalista di Al Jazeera collegata da Londra, che – prima di illustrare la situazione a Gaza – si è prodotta in un elegante «spieghino» per chiarire che le «competenze» si acquisiscono avendone l’opportunità, e ha offerto una serie di «consigli non richiesti»: tenere il conto delle presenze dei due generi, stabilire una soglia sotto la quale lo squilibrio non è accettabile, cercare e sviluppare voci diverse.

Al centro della scena c’era, ovviamente, Diego Bianchi, che non è riuscito a nascondere una certa irritazione per la lezione della collega d’oltremanica. Ma sul tema è intervenuto anche Michele Santoro, che in questo gioco delle parti ha rappresentato i classici argomenti critici: il problema è molto importante ma non si può risolvere con la forzatura della rappresentanza paritaria; oggi la presenza femminile in televisione è fortissima, eppure non abbiamo una televisione più libera ma più conformista; bisogna uscire dal «politicamente corretto» e fare una battaglia sul potere.

Una questione di giustizia

La logica del discorso di Santoro ricalca quasi letteralmente le obiezioni che si muovono quando la denuncia riguarda la sottorappresentanza delle donne in politica: il problema non si risolve con le quote; più donne non significa automaticamente una politica migliore; anziché concentrarsi sui numeri le donne dovrebbero guardare ai problemi veri.

Come in politica, così in tv, bisogna però ricordare che i numeri sono una questione di potere, e che se l’aspetto quantitativo da solo non basta, non c’è però cambiamento possibile che non passi attraverso un riequilibrio della rappresentanza. Non si spiegherebbe altrimenti, al contrario, l’opposizione feroce degli uomini quando si tratta di fare un passo indietro, come avvenuto per esempio negli ultimi mesi nella vicenda della sostituzione di capigruppo del Partito democratico in parlamento.

Il parallelo con la politica può servire a illustrare anche il tema della “qualità”: il fatto che la presenza di più donne non garantisca di per sé una politica o un’informazione diversa, non implica certo che il risultato sia meglio assicurato dalla difesa dello status quo.

La presenza paritaria delle donne nella politica, nei media, in tutte le sfere della società deve essere guardata come una questione di giustizia, non come la formula magica capace di riparare i mali della collettività per virtù di una benefica “essenza femminile”. E la giustizia di genere, sostiene la filosofa Nancy Fraser, deve incorporare tre dimensioni: quella economica della distribuzione, quella culturale del riconoscimento di status, e quella politica della rappresentanza.

Solo nella loro integrazione queste dimensioni possono generare parità di partecipazione sociale. Nessuna di queste questioni va quindi dismessa, almeno da chi si proclama di sinistra, come secondaria o superflua, come un’altra manifestazione della furia del politically correct.

Presenza in tv

Quanto e come le donne sono presenti nelle trasmissioni televisive lo si apprende guardando i dati dell’Osservatorio di Pavia che, anche se relativi alla sola programmazione Rai, offrono una fotografia dello sbilanciamento: gli uomini costituiscono il 64 per cento delle presenze, contro il 36 per cento di donne, e le seconde scendono al 18 per cento tra i politici, al 22 per cento tra portavoce di associazioni, aziende, enti, istituzioni, partiti, al 25 per cento tra gli esperti. Di fronte a questo quadro, Propaganda Live non è un esempio peggiore di altri, anzi brilla forse in positivo per presenza di donne almeno tra le esperte, le rappresentanti di associazioni, le artiste.

Da ciò la sensazione di una critica immeritata. Però il modo in cui gli uomini che ne sono responsabili affrontano la questione è rilevante almeno quanto la questione stessa.

Il nodo irrisolto

La trasmissione simbolo della sinistra, che ha raccontato le migrazioni, la povertà, il lavoro sfruttato, le lotte operaie, restituendo ai protagonisti quella dignità che proprio la narrazione televisiva finisce spesso per negare, rivela ora, di fronte all’accusa di “maschilismo”, un nodo irrisolto nel rapporto con le questioni di genere. Il problema ha certo radici antiche per la sinistra, ma rappresenta in Italia anche la lunga eredità della stagione dell’anti-berlusconismo.

La polarizzazione che ha opposto per anni questa parte al sistema di utilizzo ed esibizione di corpi femminili messo in scena dal fondatore di Forza Italia – con la continuità estetica tra politica e rappresentazione televisiva – ha alimentato una presunzione di superiorità sul terreno dei rapporti tra i generi, allontanando la capacità di guardare in casa propria e di costruire, anziché dare per scontata, un’effettiva parità.

Solo che i tempi sono cambiati, e la rivolta contro il sistema di potere basato sul genere, in tutti i campi, non risparmia gli “amici”, come ha dimostrato l’onda del #MeToo andando a colpire molti personaggi della sinistra politica e culturale. Prima impareranno gli uomini a farci i conti, con un esercizio di autocritica, prima smetteranno i balbettii e gli imbarazzi, e prima avremo un panorama politico e culturale all’altezza della complessità del presente.

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