In questi giorni è in corso una mobilitazione nazionale dei precari universitari italiani, con assemblee e iniziative in molte città: Torino, Milano, Trento, Bologna, Padova, Firenze, Pisa, Siena, Urbino, Roma, Napoli e Palermo. L’ondata di proteste segue la manifestazione nazionale dell’11 novembre davanti al Ministero dell’Università e della Ricerca e prosegue un ciclo di scioperi e iniziative che dura ormai da due anni.

La miccia è la riforma della ministra Bernini, che ridisegna l’intero pre-ruolo introducendo due figure contrattuali: gli “incarichi post-doc”, destinati ai dottori di ricerca, e gli “incarichi di ricerca” per laureati magistrali, che si aggiungono al contratto di ricerca presente nella riforma Verducci. Il compenso previsto per i post-doc è analogo al primo stipendio dei ricercatori di ruolo, un passo avanti importante. Ma c’è un limite che rischia di svuotare la riforma: gli atenei non potranno spendere per queste posizioni più di quanto abbiano speso, in media, negli ultimi tre anni per assegni di ricerca e contratti Rtd-a. Il risultato sarà una drastica riduzione del numero complessivo di posti.

A peggiorare il quadro arriva la fine delle risorse del Pnrr e la conferma del blocco del turn-over del personale universitario al 75% nel 2026: ogni 10 pensionamenti, solo 7,5 nuovi ricercatori potranno entrare in servizio. Le organizzazioni sindacali stimano che i circa 35 mila rapporti di lavoro di ricerca attivati negli ultimi tre anni si ridurranno a 15-20 mila.

Dietro questi numeri c’è un’intera generazione. Tra il 2019 e oggi il personale docente e di ricerca delle università statali è cresciuto del 15%. Ma se i docenti a tempo indeterminato sono aumentati del 9%, i ricercatori a tempo determinato — la componente più fragile — sono cresciuti del 49%: da meno di 8 mila a quasi 12 mila, oggi pari al 20% del totale. I più esposti agli effetti della riforma Bernini e del sottofinanziamento dell’Università italiana sono i 6.500 ricercatori di tipo A, senza alcuna garanzia di rinnovo, ai quali si aggiungono 15.500 assegnisti di ricerca. Si tratta di “giovani” tra i 34 e i 40 anni, spesso con carichi didattici e di ricerca importanti e stipendi che oscillano tra 1.200 e 1.900 euro mensili.

La loro mobilitazione non nasce solo da un disagio individuale. È un problema strutturale che riguarda tutto il sistema universitario. Disperdere questo capitale umano — formato con anni di investimenti pubblici — significa indebolire la ricerca e la didattica in un Paese che avrebbe invece bisogno urgente di nuove assunzioni e di un ricambio generazionale.

Come è stato più volte ripetuto anche su questo giornale, l’Italia destina all’istruzione terziaria una quota di Pil tra le più basse dell’area Ocse, ben al di sotto della media europea. Le conseguenze sono visibili: un corpo accademico ridotto e invecchiato, con un rapporto docenti/studenti di 1 a 20 (contro 1 a 11 in Germania e 1 a 15 nella media Ocse) e un’età media che supera i 50 anni, arrivando a 57 tra i professori ordinari.

Per questo è difficile voltarsi dall’altra parte. Servono risorse strutturali e un piano straordinario di reclutamento che offra, attraverso concorsi pubblici, la possibilità di stabilizzare chi da anni sostiene l’università italiana. Non per concessione, ma per giustizia e per futuro: il loro, e quello del Paese.

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