La politica “zero contagi” perseguita dalla Cina, con rigide restrizioni alle libertà private, nata per dimostrare al mondo la superiorità cinese nell’affrontare la pandemia da Covid, si sta dimostrando un cul de sac da cui è difficile uscire.

C’è la crisi sociale, con violente proteste quotidiane e gli analisti si interrogano sulle loro ricadute politiche: anche se è impossibile che il regime revochi restrizioni e controlli e sia disposto ad ammettere che i vaccini cinesi non sono efficaci quanto quelli occidentali (oltre a un sistema sanitario non in grado di sostenere il prevedibile aumento dei ricoveri), il persistere in una politica disastrosa rischia di portare la crisi sociale a livelli inusitati.

La previsione è dunque una politica stop and go in cui restrizioni e repressione vengono allentate, ma mai sconfessate, con inasprimenti locali in casi in presenza di focolai gravi.

Reazione a catena

Anche così la politica zero contagi potrebbe avere ricadute economiche per il resto del mondo. La gestione della pandemia, unitamente alla crisi immobiliare, ha causato un crollo della domanda interna di consumi.

La crescita è continuamente rivista al ribasso: gli analisti la stimano al 3,2 per cento quest’anno (molto al disotto dell’obiettivo ufficiale del 5 per cento) e trainata dalle esportazioni.

Ma la Cina è anche un’economia energivora, primo importatore netto di greggio (davanti a India e Giappone) e terzo di gas (dopo Germania e Giappone).

Il forte rallentamento cinese di quest’anno ha permesso ai paesi europei di fare scorta di gas altrimenti destinato alla Cina; ma se, come si pensa, ci sarà un’accelerazione della crescita cinese dall’anno prossimo, anche se non ritornerà al trend del passato, l’Europa dovrà affrontare una maggiore competizione da parte dell'Asia per le proprie forniture energetiche.

Ed è significativo che la Cina, per cautelarsi, abbia appena sottoscritto col Qatar un contratto per 27 anni, una lunghezza mai vista prima nella storia dell’industria.

La politica “zero contagi” provoca anche enormi problemi alle filiere di produzione che avevano trovato la loro principale collocazione in Cina, come dimostrano le recenti proteste nella fabbrica Foxconn dove si producono gli iPhone, o le ricorrenti chiusure dei porti da cui partono gran parte delle merci esportate.

La Cina offre le quattro condizioni ideali per la delocalizzazione delle filiere produttive: ampia offerta di lavoro, a basso costo, qualificato; e infrastrutture di trasporto merci efficienti.

Nessun altro paese offre altrettanto: il Vietnam ha lavoro qualificato e a basso costo, ma non grandi volumi di offerta di lavoro; altri paesi asiatici hanno costi maggiori; l’India ha una manifattura sotto sviluppata; e molti paesi emergenti hanno lavoro a basso costo ma poco qualificato e mancano di infrastrutture.

I rischi geopolitici e la gestione della pandemia incentivano lo spostamento delle filiere di produzione dalla Cina, ma sarà un processo lento e lungo.

Nel frattempo il perdurare della crisi da Covid in Cina rischia di propagarsi nel mondo sotto forma di disfunzioni nelle filiere che aumentano i costi e provocano ritardi nelle consegne, con effetti su margini e fatturato delle imprese occidentali.

I consumi

Un’ulteriore conseguenza della politica dei contagi zero è che mette in crisi la domanda di consumi privati di beni durevoli e di servizi legati al tempo libero, diventati uno dei principali mercati di sbocco per le imprese occidentali.

Un’ulteriore ragione per delocalizzare in Cina alcune produzioni era anche quello di avvicinare il consumatore cinese ai prodotti occidentali. Ma la crisi sembra aver prodotto un effetto boomerang sulle preferenze del consumatore cinese a favore delle produzioni locali.

Caso emblematico è quello dell’industria automobilistica tedesca che aveva fatto trovato in Cina il proprio mercato principale e uno dei più redditizi, contribuendo alla maggior fetta degli investimenti diretti verso quel paese. Ma complice la politica anti-covid e la transizione ambientale, da principale cliente la Cina sta diventando un forte concorrente.

Per esempio, l’anno scorso Volkswagen (Vw) ha esportato in Cina oltre un terzo del suo fatturato; ma ha visto la quota di mercato di tutti i marchi del gruppo scendere dal 20 per cento pre-covid al 16.

E nel segmento delle auto interamente elettriche, a più forte crescita e dove si orienteranno maggiormente in futuro i cinesi, VW ha una quota di appena del 3,5 per cento, molto dietro a Tesla, che ha il 12, e con la parte del leone ai produttori cinesi specializzati nell’elettrico come, BYD (che in Germania ha una quota nel segmento superiore a quella di Vw in Cina), NIO, e XPeng; senza contare la crescita dei produttori di auto tradizionali come Geely o DonFeng Motor, e il predominio nella tecnologia e costruzione delle batterie che le alimentano.

Di tutto questo si sta parlando poco, privilegiando gli aspetti politici delle vicende cinesi.

Dovremmo invece pensare anche alle relative implicazioni sul nuovo ordine economico mondiale e alle ripercussioni sul sistema industriale europeo.

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