Alcuni amici italiani di Vladimir Putin, come Matteo Salvini, e i giornali che ne amplificano la linea sostengono che le sanzioni alla Russia sono un fallimento e che fanno più male a noi che a Vladimir Putin. Non è vero.

Gli strumenti di guerra economica non hanno mai ottenuto il risultato di innescare un regime change, cioè la caduta del regime sanzionato: anche i peggiori dittatori si adeguano e riescono a scaricare le conseguenze sulla popolazione e a reprimerne il dissenso. Proprio perché sono dittatori.

A parte alcuni bellicosi esponenti dell’amministrazione americana e intellettuali di paesi ex-sovietici, nessuno ha mai voluto portare i russi alla fame per spingerli ad assaltare il Cremlino. Lo scopo primario delle sanzioni occidentali decise da marzo a oggi è stato i chiarire a Putin che avrebbe pagato un prezzo molto più alto per l’invasione dell’Ucraina che per l’annessione della Crimea nel 2014.

Il prezzo è l’isolamento della Russia dalla globalizzazione e la drastica riduzione delle sue prospettive di crescita per i prossimi decenni.

Ottimismo eccessivo

I filorussi si aggrappano al fatto che il Pil russo forse scenderà del 6 per cento nel 2022 (Fondo monetario) invece che dell’11 per cento stimato ad aprile dalla Banca mondiale.

Ma i numeri del Pil sono confusi e poco affidabili in questo momento, e non dicono tutto: l’economia russa si sostiene grazie alle esportazioni di gas e di petrolio (che vale metà delle sue entrate). In volume il petrolio esportato si è ridotto, ma l’aumento del prezzo ha più che compensato l’effetto. Quindi la Russia e Putin continuano ad arricchirsi con l’energia.

La stabilità del rublo, che molti citano come segnale di solidità dell’economia russa, è invece la spia del problema: a parte le limitazioni sulle operazioni in valuta poste dalla Banca centrale russa, il rublo non crolla perché a crollare sono state le importazioni della Russia mentre l’export di gas e petrolio continuava.

E se i russi non possono importare, per mancanza di risorse, di valuta estera, per effetto delle sanzioni, questo è un grosso problema per i cittadini ma anche per le imprese che non possono più accedere a tecnologia decisiva (militare e non solo) per competere a livello internazionale.  

Perfino le statistiche della Banca centrale russa parlano di una inflazione al 15.1 per cento a luglio, nonostante i tassi di interesse siano già all’8 per cento.  

Altro segnale di un’economia non certo in salute, come confermano dati dell’economia reale meno manipolabili dal Cremlino: prima della guerra in Russia si vendevano circa 100.000 nuove automobili ogni mese, a giugno meno di 27.000, anche il commercio online si è contratto, secondo una ricerca di economisti di Yale.

I tentativi di Putin di compensare gli effetti delle sanzioni non stanno funzionando: la Cina compra petrolio a prezzo scontato, ma non può comprare il gas che non va in Europa (c’è un solo tubo verso est), così come le esportazioni verso i paesi che ancora hanno rapporti commerciali (Cina, India e altri) non bastano a compensare la perdita di accesso ai mercati occidentali.

Il governo ha provato a stimolare l’economia domestica con la spesa pubblica, il bilancio sarà in deficit del 2 per cento invece che in surplus come previsto, ma non basta. Anche le riserve in valuta estera ancora sotto il controllo del Cremlino (300 miliardi presso le banche centrali sono congelati) si stanno riducendo, pare già di 75 miliardi.

Se la misura del successo delle sanzioni è la crisi dell’economia russa, stanno funzionando là dove sono state applicate, cioè a quasi tutto tranne l’energia e il gas. Per rovesciare Putin o fermare l’invasione, però, ci vogliono altre armi che le democrazie occidentali non sono disposte a usare.

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