Poche persone capiscono meno di politica politicante di una vecchia prof di filosofia. Ci perdonino dunque i fini notisti politici che da settimane girano e rigirano fra le loro pinze, in queste occasioni più politicanti che politologiche, il tormentone del Colle e del piano, del Quirinale e di palazzo Chigi, del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio.

Ci perdoni Giulia Merlo che su Domani (13 novembre) propone un lungo, audace, complesso ragionamento tattico-strategico sulle possibili dimissioni di Draghi a dicembre, preludio a uno sconvolgimento delle carte in tavola che costituirebbe una via d’uscita dal tormentone e aprirebbe, come si dice, nuovi scenari all’elezione del presidente della Repubblica. Una pensata che, ci dice, si sta diffondendo anche nell’entourage di Palazzo Chigi che sta lavorando al Pnrr.

La distanza dalle promesse

Ecco, ma i vecchi prof. di filosofia, o di qualunque altra disciplina più o meno umanistica, hanno almeno il vantaggio di una insospettata vicinanza al sentimento dei più: che è il sentimento, assai più diffuso di quanto politicanti e notisti immaginano, dei fini cui serve l’esercizio del potere politico, e del nesso fra i fini e i mezzi per conservarlo, o di conquistarlo. 

I più non sono forse attratti dall’anti-politica, ma sopraffatti dall’angoscia della contingenza. Cioè dalla nausea di una politica ridotta all’esclusivo traccheggio per la conservazione di un qualunque straccio di potere, indipendentemente dai mezzi: dai più arzigogolati machiavellismi istituzionali ai più infami dossieraggi, con relativo abbassamento ulteriore del già depresso livello del dibattito pubblico.

L’attuale presidente del Consiglio aveva debuttato con discorsi il cui inusuale tasso di idealità aveva acceso speranze in moltissimi disperati cittadini, fra cui tanti vecchi e nuovi prof di varie umanità, e ancora di più nei più radi cultori o semplici ammiratori delle scienze tutte.

Meglio tacere, per carità di patria, sulla corrispondenza fra gli ideali di quel discorso – virtualmente, la ricostruzione della decenza repubblicana e democratica nell’orizzonte degli Stati Uniti d’Europa, sulle rovine pandemiche e populistiche di questo come di altri paesi – e il poco (mal) realizzato delle promesse riforme.

Le alternative

Ma proprio questo poco facilita oggi la visione del fine, e la possibile quasi unanime convergenza su di esso. Draghi aveva detto: o l’Europa risorge anche col contributo dell’Italia, o con l’Italia sprofonda anche l’Europa. Ecco, c’è questo da fare: dare il contributo promesso. Di riforme vere (tutte quelle rinviate) per noi e di riforme vere (come quella sulla distribuzione e l’integrazione dei migranti, sulla politica estera europea, sulla fiscalità e la difesa comune) per l’Europa.

C’è forse un dubbio su chi debba farle qui e ottenerle là? E perché attardarsi tanto sulla successione al Colle, con tutte le meravigliose signore che hanno veramente fatto politica per dei fini ideali, a esclusione di una ministra della Giustizia che ha già dato pessima prova?

Ne cito due: una donna che ha saputo anteporre la giustezza dei diritti (civili) al paternalismo e familismo della sua tradizione di provenienza: Rosi Bindi. E una donna che ha onorato quella ricerca e quell’etica della ricerca scientifica che tanto, mancando, deprimono il futuro dell’Italia nel mondo: Elena Cattaneo. Ma quante, quante altre ce ne sono. E allora perché attardarsi nei machiavellismi piccini?

 

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