L’ipotesi si è fatta più plausibile da quando è arrivato il testo definitivo della legge di Bilancio, con i rinvii di dossier e riforme impopolari a ridosso della fine della legislatura, e dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiuso definitivamente all’ipotesi di un suo mandato bis.

Le manovre dei partiti sulla scelta del prossimo capo dello stato hanno sempre al centro l’incertezza sul destino dell’attuale presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel ruolo per lui inusuale di oggetto passivo delle decisioni altrui.

E allora Draghi potrebbe dimettersi subito dopo l’approvazione della legge di Bilancio negli ultimi giorni di dicembre. L’ipotesi estrema sembra ora una di quelle più concrete per rompere lo stallo.

Missione compiuta

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Draghi avrebbe una motivazione poco contestabile per le dimissioni: la missione che gli è stata affidata quasi un anno fa da Mattarella è compiuta. La pandemia è sotto controllo, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ben avviato, con buona parte delle leggi di delega al governo approvate o in approvazione a gennaio.

Passata l’elezione del successore di Mattarella, in ogni caso l’azione dell’esecutivo si rivelerebbe meno efficace che nei mesi scorsi, con l’inizio di una campagna elettorale – breve per il 2022 o lunga per il 2023 – che esaspererebbe le tensioni dentro l’anomala maggioranza di governo. Le avvisaglie già si sono viste nelle settimane scorse, con partiti sempre più litigiosi e inclini a frenare le iniziative del governo invece che a sostenerle. Una degenerazione che ha fatto irritare non poco Draghi, che da subito aveva detto di non essere disposto a subordinare il percorso di riforma alle schermaglie politiche.

Ovviamente, le dimissioni verrebbero anche lette dai partiti come una candidatura al Colle di Draghi, libero dal peso di palazzo Chigi, con l’argomento della continuità necessaria del governo Draghi tolto dalla discussione sul capo dello stato.

Questa sarebbe la linea temporale: approvazione della legge di Bilancio, con dimissioni di Draghi subito dopo, a fine dicembre; consultazioni lampo da parte di Mattarella, che farebbe giurare il nuovo governo in tempo per il voto di febbraio che eleggerà il suo successore.

L’ipotesi, per quanto spericolata, ha un vantaggio: le dimissioni di Draghi potrebbero semplificare la sua elezione al Quirinale perché svincolerebbero la sua candidatura dalla durata della legislatura. Se il nome del Draghi premier entrasse nell’urna dell’assemblea in seduta comune, infatti, non potrebbe che uscirne presidente o premier dimissionario. Una bocciatura per il Quirinale assumerebbe anche il significato politico di un voto di sfiducia sul governo, perché sarebbe il prodotto di una frattura nella maggioranza proprio intorno al nome di Draghi.

Con le dimissioni anticipate, invece, ci potrebbe essere addirittura spazio per una consultazione lampo da parte del capo dello stato Sergio Mattarella e per la nascita di un nuovo esecutivo, magari molto simile all’attuale, quasi un maxi-rimpasto con una persona di fiducia di Draghi e Mattarella a palazzo Chigi.

L’intreccio col Pnrr

Italian President Sergio Mattarella,Pope Francis wearing a face mask attends a ceremony for peace with representatives from various religions in Campidoglio Square in Rome on October 20, 2020 (Photo by Stefano Spaziani) | usage worldwide Photo by: Stefano Spaziani/picture-alliance/dpa/AP Images

Le dimissioni sarebbero un terremoto, ma metterebbero anche un punto fermo per aprire una nuova fase politica. L’ipotesi, che in ambienti politici di centrosinistra viene bollata come «fantapolitica», si è diffusa anche nell’entourage di palazzo Chigi che sta lavorando al Pnrr. E non viene vista come una catastrofe, anzi.

Il ragionamento pragmatico è che, se deve nascere un nuovo governo e se il nuovo presidente della Repubblica sarà Draghi, è meglio che il processo si avvii prima del voto per il Quirinale piuttosto che dopo.

Un nuovo governo a gennaio, infatti, allontanerebbe lo spettro delle elezioni anticipate dal Colle ed eviterebbe a Draghi, come nuovo capo dello stato, di dover subito cercare una nuova maggioranza di governo e indicare il suo successore. Insomma, le dimissioni anticipate a fine dicembre disinnescherebbero più problemi di quanti ne creerebbero.

Le controindicazioni

«I governi non si trovano dalla mattina alla sera, soprattutto in un parlamento frantumato come questo», taglia corto un parlamentare di lungo corso, scettico rispetto alla sostenibilità politica dell’operazione, che definisce «un controsenso».

Un controsenso perché le dimissioni non sarebbero per Draghi un buon biglietto da visita in vista del Colle e non lo sarebbe nemmeno la scelta di mettere sotto pressione il paese in una fase così delicata. Inoltre, lasciare il certo per l’incerto potrebbe anche portare a una rovinosa caduta. Una volta dimessosi da palazzo Chigi, infatti, tra Draghi e il Quirinale ci sarebbe di mezzo un parlamento balcanizzato che offre poche garanzie, anche a chi oggi viene considerato il “grande traghettatore”.

Esistono poi anche ostacoli di natura ordinamentale. Le dimissioni a dicembre, infatti, sarebbero solo formali e Draghi rimarrebbe in carica per il disbrigo degli affari correnti. Se il parlamento venisse riconvocato in gennaio e iniziassero le consultazioni, ci sarebbe una settimana appena per far nascere un nuovo governo prima di riunirsi in seduta comune per eleggere il successore di Mattarella.

Dunque il premier dimissionario durante le votazioni rimarrebbe comunque Draghi e permarrebbe il cortocircuito: se venisse eletto al Quirinale, il governo rimarrebbe senza vertice per la durata delle consultazioni che comunque dovrebbe gestire lui. Un’eventualità mai vista e soprattutto una concentrazione di poteri nelle mani di una sola persona che farebbe risuonare quel «semipresidenzialismo di fatto» evocato dal ministro Giancarlo Giorgetti qualche settimana fa.

Eppure, nella grande confusione sotto il cielo, la situazione potrebbe essere eccellente per una mossa inaspettata che permetta di uscire dall’attuale impasse.

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