Christian Raimo – collaboratore di questo giornale – fu punito con tre mesi di sospensione dall’Ufficio scolastico regionale del Lazio per aver definito “lurida” l’idea di scuola del ministro Valditara durante un dibattito politico. Il tribunale ha ridotto la sospensione a 10 giorni, disponendo la restituzione dello stipendio. In questa pagina spiega perché anche questa sentenza non gli rende completamente giustizia
Qualche giorno fa è arrivata la sentenza del ricorso che insieme a una serie di avvocati della Cgil avevo fatto nella primavera scorsa per la sanzione disciplinare che mi era stata comminata dall’ufficio scolastico regionale del Lazio: tre mesi di sospensione dall’insegnamento (dal 6 novembre al 5 febbraio), stipendio dimezzato, più una serie di sanzioni accessorie, come la sospensione della carta docenti, l’interruzione degli scatti stipendiali, l’impossibilità di partecipare a concorsi, l’impossibilità di fare gli esami di maturità.
La storia è abbastanza nota. Durante un dibattito alla festa nazionale di Alleanza Verdi e sinistra avevo tracciato la mappa della crisi che attraversa la scuola, avevo ricordato quante e quali sono comunque gli sforzi e le intelligenze che riescono comunque a mandare avanti il sistema educativo in Italia, e poi avevo criticato le politiche del governo, definendo lurida l’idea che il ministro Valditara ha della scuola – mi riferivo a tanti aspetti diversi: dall’educazione sessuo-affettiva al nazionalismo di ritorno – e proponendo a breve una manifestazione di protesta contro queste politiche e l’operato del ministro, che riconoscevo come una figura presuntamente forte di un governo che sembra imbattibile e invece è solo autoritario: usavo come metafora la morte nera, the death star nella versione inglese, l’arma invincibile dell’impero in Star Wars, di cui invece la resistenza di Luke Skywalker, Han Solo e compagnia sanno riconoscere i punti deboli.
La sentenza del tribunale del lavoro di Roma riconosce il diritto alla libertà di espressione, ma ritiene che ho travalicato «i limiti della correttezza e dell’educazione, anche se non riferiti ad una persona ma ad un pensiero. Ci si riferisce, in particolare all’utilizzo del termine lurido». La sanzione però mi viene ridotta da tre mesi a dieci giorni perché «i comportamenti addebitati al ricorrente non rivestono quei caratteri di particolare gravità» (abuso d’ufficio, interruzione di pubblico servizio, etc…) che fanno scattare la sospensione da uno a sei mesi; e scrive di «restituire quanto trattenuto in termini di retribuzione e quant’altro».
Un riconoscimento, ma...
È una sentenza notevole che dà valore al dettato costituzionale, riconoscendo due principi cardinali – la libertà di espressione e il diritto al lavoro. La mia vicenda personale era sembrata da subito avere una valenza collettiva; si era attivata una mobilitazione importante, che oggi si vede riconoscere le proprie ragioni. Provo un grande senso di gratitudine per il sindacato, il pool di avvocati, e le persone che a vario titolo mi hanno manifestato solidarietà e dato sostegno materiale in questi mesi; soprattutto è stato fondamentale chi ha pensato che contrastare le politiche di questo governo e una lotta per una scuola più democratica fosse il modo migliore per starmi vicino.
Proprio in virtù di questo riconoscimento, sto pensando di fare ricorso sul punto che la sentenza giudica ancora controverso. L’aggettivo lurido. Di fatto si sostiene che si possano infliggere dieci giorni di sospensione dall’insegnamento a un docente pubblico se critica le idee di un ministro aggettivandole come luride. Mi sembra ancora eccessivo. Per diverse ragioni che provo a spiegare.
Prima ragione: Kant
La prima è semplice: non ero in classe ma in una festa di partito. La differenza mi sembra palmare. Ho sempre malvisto i docenti che usano il proprio ruolo in classe per comiziare. Ma ho sempre invece considerato un diritto e anche un dovere esercitare la propria critica fuori dalla scuola. È il principio cardinale del liberalismo che Kant esprime in modo argentino in Che cos’è l’illuminismo?, pubblicato nel 1784. Anche i miei studenti l’hanno ricordato in una lettera aperta che hanno voluto scrivere a sostegno, più che mio, della mia causa.
Kant lo fa distinguendo tra uso pubblico e uso privato della ragione. Scrive: «Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidato». E negli esempi con cui sostanzia le sue definizioni – l’ufficiale in servizio, il sacerdote, il cittadino di fronte alle tasse – Kant chiarisce che un conto è adempiere alle disposizioni che il proprio ufficio prevede, un altro è «la piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i [propri] pensieri».
Kant ci dice insomma che, nello spazio pubblico, non solo possiamo criticare il nostro governo, ma che è proprio un nostro specifico compito farlo, serve a realizzare la libertà dell’illuminismo, cioè l’uscita dallo stato di minorità. C’è un ottimo articolo di Marco Meotto su Doppiozero, che approfondisce questo aspetto. C’è stato un dibattito alla facoltà di giurisprudenza dell’università Roma3 organizzato da Dario Ippolito che ha coinvolto Carlo Ginzburg, Luigi Ferrajoli e Nadia Urbinati che ha ragionato proprio in questi termini filosofici e storici del problema del caso di diritto: si può trovare facilmente in rete.
Seconda ragione: le idee
La seconda ragione è quella che la sentenza nomina senza trarne le conseguenze: la mia critica era all’idea di scuola del ministro; non certo a lui. È questo il fondamento di ogni confronto pubblico. Di più: è esattamente il presupposto dell’educazione al dibattito che proviamo a insegnare a scuola. Non ho detto, non ho nemmeno mai pensato e non mi verrebbe mai da pensare che Valditara è lurido; è la sua idea della scuola in questo momento a esserlo. Le idee per fortuna non definiscono in modo totalitario le persone. Chiunque, anche la persona migliore del mondo, può avere un’idea spregevole su un determinato argomento. Chiunque può avere un’idea oscena e magari cambiarla. Proprio da questa critica aspra alle idee spesso scaturisce una dialettica fertile.
Terza ragione: Sandro Galli
La terza ragione è che la mia critica era destinata alle idee del ministro Valditara, non erano certo dirette al ministero in sé. Non credo ci sia una coincidenza tra le idee del ministro e l’istituzione scolastica. Ma anche tra il singolo docente e l’istituzione c’è un rapporto che considero laico.
Non molto conosciuta è la storia di Sandro Galli. È un professore bolognese anarchico che nel 1980 decide di fare uno sciopero della fame per protestare contro l’obbligo per i docenti di prestare giuramento allo Stato. È un obbligo imposto con un decreto regio del 28 agosto 1931, fascista dunque, che è rimasto in vigore anche dopo la sconfitta del fascismo. Nel 1975, non giurando, Galli viene sospeso dall’insegnamento e si ritrova disoccupato. Nel 1977 può riprendere l’insegnamento, prima come precario, quindi passato per legge “d’ufficio”: ma quando si tratta di giurare, ancora una volta si rifiuta. («Innanzitutto il giuramento ti esclude come lavoratore libero e ti rende a tutti gli effetti un coatto; considera poi che così viene sancito il tuo obbligo di eseguire qualsiasi ordine di un superiore, a meno che non sia palesemente in contrasto con altre leggi, come nell’ambito militare; e tutto ciò fa parte di quel retaggio legislativo fascista, Codice Rocco in testa, che è divenuto parte della normativa della Repubblica nata dalla Resistenza»).
Per portare all’attenzione dell’opinione pubblica antifascista le ragioni del suo rifiuto e l’esigenza dell’abrogazione di quel giuramento, il 12 maggio 1980 comincia lo sciopero della fame. Il 25 giugno 1980 il Corriere della sera titola Rischia di morire il professore anarchico che non vuole giurare, racconta che Galli è arrivato al quarantaquattresimo giorno di sciopero della fame, e nonostante i medici gli abbiano dato al massimo una settimana di vita, lui è deciso di andare fino in fondo: «Nemmeno l’intervento del ministro Sarti, che ha disposto la sospensione del suo licenziamento, in attesa che il Consiglio di Stato decida su una deroga, lo ha convinto a sospendere la sua singolare e pericolosa forma di protesta. Il comitato, che si è formato per difendere la sua posizione, il docente ha detto: sono stato posto in osservazione all'Ospedale maggiore. Rifiuto le cure mediche, continuo lo sciopero della fame».
Il 2 luglio Galli, riporta sempre il Corriere, attenua lo sciopero della fame. Il sindaco di Bologna Zangheri si dà particolarmente da fare, mettendo un pullman del comune a disposizione di una delegazione di amici e compagni di Galli che va a Roma per essere ricevuta dal presidente della repubblica Pertini; scrive un articolo di simpatia e sostegno su Repubblica; e soprattutto si fa promotore dell’abrogazione del giuramento per gli statali di Bologna e dell’Emilia Romagna.
La legge 116, del 30 Marzo 1981, abroga l’obbligo del giuramento.
La scuola è più libera da allora. Ecco: quel dettato costituzionale che difende la libertà di espressione e di insegnamento dà forza proprio alla possibilità di criticare gli esponenti politici senza venire tacciati di lesa maestà.
Del resto anche ministri e politici si prendono giustamente questa libertà. Le idee sulla scuola di Valditara che mi trovo a criticare sono spesse espresse dal ministro stesso in contesti non istituzionali. Per esempio nel raduno della Lega a Pontida solo pochi mesi fa, accanto all’ex generale Vannacci, che senza pudore parlava di remigrazione per gli stranieri. Ci immaginiamo cosa avranno pensato gli studenti di origine straniera di fronte a quel contesto?
Quarta ragione: sinonimi
La quarta ragione riguarda le mie affermazioni con cui avrei travalicato i limiti della correttezza e dell’educazione usando l’aggettivo lurido. È vero, avrei potuto usare altri aggettivi per definire in modo critico l’idea della scuola del ministro. Avrei potuto dire detestabile, spregevole, disprezzabile, indegna, orrenda, tremenda, disgustosa, stomachevole, emetica, orrorifica, schifosa, terribile, eccetera. Alcuni di questi aggettivi sono meno aspri di lurida, altri forse lo sono altrettanto se non di più. Come facciamo a decidere che c’è un superamento dei limiti della correttezza e dell’educazione? Come facciamo a stabilire che per sanzionare questo superamento dei limiti occorra una sospensione di dieci giorni dall’insegnamento? Se avessi usato l’aggettivo orripilante ne avrei rischiati di più o di meno?
Penso che ognuno abbia diritto di difendersi se si sente offeso. E la libertà di espressione deve sicuramente contemplare dei limiti in democrazia. Ma il mio caso non è stato giudicato perché avrei diffamato il ministro, che appunto non mi ha mai querelato; sono stato sanzionato in base a un codice deontologico dei docenti.
Quinta ragione: liti filosofiche
La quinta riguarda la tensione critica che è vero l’aggettivo lurida porta con sé. Anche qui, facendo l’insegnante di storia e filosofia, mi capita di educare al confronto dialettico anche riconoscendo l’importanza della possibilità di durezza in ogni buon confronto. Non era certo tenero Platone con i sofisti che venivano definiti ciarlatani e mercenari del pensiero. Cartesio rispondeva a Hobbes, che l’aveva liquidato con “Tutto questo scritto mi sembra più un sogno che una meditazione filosofica” in modo più che piccato: homo rudis spiritus, uomo di spirito grossolano, almeno nella vulgata settecentesca.
Voltaire e Rousseau ci hanno insegnato cos’è la libertà di pensiero, ma Voltaire del Contratto sociale diceva: “Non ho mai ricevuto una così grossa lezione da un pazzo che vuole riportarci a camminare a quattro zampe” e Rousseau replicava definendolo “un falsario dell’anima umana”.
Più famosa è l’ostilità tra Schopenhauer e Hegel: “La filosofia hegeliana è un sistema di insensatezze, un delirio accademico che confina con la pazzia”.
Tre fra i più importanti filosofi del novecento – tra i più seri difensori di quello che potremmo chiamare liberalismo novecentesco – Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e Karl Popper se ne sono dette nella vita di tutti i colori, dandosi molto spesso del pazzo. In una discussione, ricorda Popper, Wittgenstein brandì un attizzatoio contro di lui, mentre Russell faceva da arbitro; lo raccontano David Edmonds e John Eidinow in un libro intitolato La lite di Cambridge.
Anche Jean Paul Sartre e Albert Camus finirono per battagliare, dopo che Camus aveva pubblicato L’uomo in rivolta. Si diedero del bugiardo e dell’ignavo.
E questi sono solo i vertici di un conflitto tra idee che è il sale della storia del pensiero e della democrazia. Come possiamo immaginare che una critica alle idee da parte di un docente debba essere sottoposta a una censura e una sospensione del lavoro?
Sesta ragione: l’uso
La sesta è l’uso dell’aggettivo lurido nella lingua italiana. Nessuno potrebbe dire che si tratti di turpiloquio, di una parolaccia. Se a molte persone che hanno seguito questa vicenda può venire in mente J Ax che canta Voglio una lurida, io ho pensato invece all’uso che Pier Paolo Pasolini ne fa nelle Ceneri di Gramsci, una poesia che so in parte a memoria. Lo usa due volte:
Già si accendono i lumi, costellando
Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
Testaccio, disadorno tra il suo grande
lurido monte, i lungoteveri, il nero
fondale, oltre il fiume, che Monteverde
ammassa o sfuma invisibile sul cielo.
E
E intorno ronza di lietezza
lo sterminato strumento a percussione
del sesso e della luce: così avvezza
ne è l’Italia che non ne trema, come
morta nella sua vita: gridano caldi
da centinaia di porti il nome
del compagno i giovinetti madidi
nel bruno della faccia, tra la gente
rivierasca, presso orti di cardi,
in luride spiaggette…
Lurido tiene in sé l’idea di uno spreco, di un’inadeguatezza, di un’incuria. Tutt’altro che un insulto, piuttosto la manifestazione di una profonda delusione. Certo la prossima volta userò sicuramente un’altra espressione! Ma non per questo ritengo siano giusti i giorni di sospensione.
È chiaro per tutte queste ragioni, credo, perché questo non sia un caso personale, e perché ho pensato che si possa fare ricorso a questa sentenza: per animare un dibattito pubblico qualificato, anche in quell’ottica del rispetto che spesso lo stesso ministro Valditara richiama. Il caso personale: ho voluto da subito evitarlo, continuerò a farlo, anche se ovviamente gli eventi hanno avuto un significativo impatto questo sì personale. Molti altri docenti e in generale lavoratori della conoscenza si possono interrogare sulle possibilità e i limiti della loro parola pubblica, ma magari potranno farlo pensando di valorizzare il confronto politico e istituzionale, il ruolo dei sindacati e il lavoro democratico dei tribunali.
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