Molte considerazioni sono state fatte sulla trasferta di Matteo Renzi in Arabia Saudita - in qualità di componente del consiglio di una fondazione saudita e conferenziere - per i profili più vari. Ma c’è un punto fermo, e condiviso: tenere conferenze a pagamento in uno Stato straniero non è cosa illegale. Questo dev’essere anche il punto di partenza per qualche osservazione ulteriore.

Oggi si torna sulla vicenda per valutarla sotto il versante della trasparenza. È un tema complesso, che si dipana in due filoni principali: lobby e finanziamenti alla politica. Il denominatore è comune: il conflitto di interessi. Ed è ciò che nei Paesi ove i due ambiti sono regolamentati si vuole evitare.

La disciplina delle lobby

Sotto il primo profilo, cioè con riferimento al tema delle lobby, la trasferta araba è stata inquadrata in modo efficace su queste pagine da Mattia Diletti, che ha messo in evidenza il «vettore attraverso cui il principe Mohanned bid Salman ha scelto di comprare relazioni politiche ed economiche sul mercato, ovvero il think tank FII Institute (Future Investement Initiative Insistitute)», quello nel cui board siede Renzi. Diletti ha evidenziato che questi “pensatoi” sono strumenti utilizzati da governi stranieri per fare «lobbying indiretto», al fine di influenzare la politica di altri Paesi. Ma in Italia non esiste una regolamentazione delle lobby.

Molti progetti di legge sul tema giacciono in parlamento. Forse si è rinunciato a disciplinare questo profilo della trasparenza, anche da parte di governi di colori diversi, perché troppi (e di troppi) sono gli interessi in gioco.

Regolamentare le lobby significa consentire ai cittadini di vagliare l’operato dei titolari di cariche istituzionali anche in funzione delle pressioni alle quali sono, anche solo potenzialmente, soggetti. Eppure in Italia – come detto - manca una normativa circa i soggetti che possono influenzarne l’agire. È uno degli ambiti per i quali non è mai stata completata quella rivoluzione della trasparenza necessaria perché una democrazia possa dirsi davvero compiuta. La trasparenza è il fondamento dell’accountability di decisori pubblici e istituzioni. Ma questa è un’espressione che nemmeno si sa tradurre in italiano, se non con un giro di parole.

Il finanziamento della politica

Nel 2013 fu abolito il finanziamento pubblico diretto ai partiti in Italia, riducendolo gradualmente, fino ad azzerarlo nel 2017 (d.l. n. 149/2013). Sono rimaste forme di finanziamento pubblico indiretto (2x1000 e agevolazioni fiscali sui contributi privati). Al contempo, ha assunto maggiore importanza il finanziamento privato, e con esso l’esigenza di garantire la trasparenza sulla provenienza delle risorse.

Così la cosiddetta legge spazza-corrotti (l. n. 3/2019), da un lato, ha previsto anche per associazioni e fondazioni connesse alla politica i medesimi obblighi di tracciabilità delle erogazioni previste per i partiti; dall’altro lato, ha vietato ai partiti «di ricevere   contributi, prestazioni o altre forme di sostegno provenienti da governi o enti pubblici di Stati esteri». La normativa ha così inteso eliminare il rischio di influenze indebite sul processo democratico da parte di portatori di interessi politici esterni al Paese. Del resto, già molti anni fa la Raccomandazione del Consiglio d’Europa sull’adozione di Regole Comuni contro la Corruzione nel Finanziamento dei Partiti Politici e nelle Campagne Elettorali (2003)4 aveva affermato che «gli Stati dovrebbero specificamente limitare, proibire o, altrimenti, regolare le donazioni dei donatori stranieri».

Sia chiaro: finanziamento alla politica, nel senso inteso dalla legge, non è essere pagati per tenere conferenze. Questo è il corrispettivo per una prestazione contrattuale. Ma tale prestazione è resa da un parlamentare in carica, che siede nella commissione Difesa (nella commissione Esteri fino a qualche mese fa), nonché leader di un partito che, nonostante l’esigua rappresentatività, ha causato una crisi di governo. Dunque, non un soggetto irrilevante. E le conferenze all’estero sono probabilmente anche il veicolo attraverso cui, tra gli altri, quel leader finanzia la propria attività politica. Nulla di illecito, lo si ribadisce. Ma il fatto che somme di denaro siano percepite da parte di governi esteri come corrispettivo contrattuale tiene al riparo da quelle interferenze straniere sulla politica nazionale che la legge sul finanziamento alla politica stessa ha inteso evitare?

Il tema, dunque, non è solo che il paese coinvolto nella vicenda viola sistematicamente i diritti umani, nega autonomia alle donne, ha in dispregio la libertà di stampa, tanto da non esitare di fare a pezzi i giornalisti.

Questione di trasparenza

E la trasparenza che dovrebbe connotare chi svolge una funzione pubblica, per garantirne l’accountability? La trasparenza difetta. Perché, se la dichiarazione dei redditi di un titolare di cariche politiche dev’essere pubblica, per legge (d.lgs. n. 33/2013), non così la sua attività privata, quindi nemmeno la lista delle conferenze che egli tiene in giro per il mondo e, conseguentemente, chi lo paga. E se, sempre in base alla legge, chi finanzia la politica presta implicitamente il consenso a rendere pubblica la propria identità, invece la fonte dei redditi che il politico percepisce può restare coperta da opacità.

Non basta la giustificazione che i compensi per conferenze sono redditi personali e non concorrono a finanziare la politica: essi si confondono con qualunque altro reddito e non si può sapere quale utilizzo ne sia fatto. Dunque, una trasparenza a metà.

Conflitto di interessi

Se un politico-conferenziere esercita il proprio voto in Parlamento in deliberazioni riguardanti interessi del governo estero che gli versa un legittimo compenso per le conferenze svolte, il conflitto di interessi non emerge. Ciò in quanto il legislatore, da un lato, ha rinunciato, a sancire incompatibilità tra il ruolo di parlamentare e attività diverse, tra le quali quella svolta dal senatore di Rignano; dall’altro lato, per chi riveste cariche elettive a livello nazionale, non ha disposto un qualche specifico dovere di astensione in situazioni di conflitto di interessi, come invece, sia pur in modo blando, per i titolari di cariche di governo.

Anzi, addirittura manca una definizione della stessa nozione di conflitto di interessi, che chiarisca in quali circostanze e per quali soggetti esso può verificarsi. È un’area grigia in cui la politica continua a sguazzare. La vicenda di Renzi in Arabia ne è dimostrazione.

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