La scelta di Matteo Renzi di sedere a pagamento nel board in un istituto controllato uno stato estero è così inopportuna che doverne spiegare la gravità può sembrare esercizio pleonastico. I motivi più evidenti sono già stati elencati su questo giornale da autorevoli commentatori, che hanno ricordato come l’Arabia Saudita sia una teocrazia antidemocratica, il cui regime viola sistematicamente i diritti umani e delle minoranze. Ne è indiscusso leader il principe Mohammed bin Salman, amico personale di Renzi e indicato, da mezzo mondo, come vero mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.

Al netto delle giustificazioni stravaganti dell’ex premier («Il regime saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico», ha detto al Corriere), ci sono altre ragioni che dovrebbero convincere il capo di Italia viva a dimettersi al più presto dal FII Institute, l’ente finanziato dal fondo sovrano della monarchia. E riguardano i palesi conflitti di interesse tra l’incarico mediorientale e il ruolo di senatore della Repubblica.

Il rignanese, infatti, è pagato dai cittadini italiani circa 15 mila euro netti al mese anche per difendere gli interessi economici nazionali. Nell’intervista in ginocchio fatta a Bin Salman l’ex sindaco di Firenze ha invece difeso con vigore quelli di altro stato: plaudendo all’Arabia come «centro di un nuovo rinascimento», lodando i piani di sviluppo previsti dal Riad da qui al 2030, dichiarandosi «geloso» del basso costo del lavoro saudita confrontato a quello italiano evidentemente svantaggioso, Renzi – novello Giorgio Mastrota – ha fatto uno spot stupefacente a un’economia straniera, in potenziale concorrenza con la nostra. Un errore grave: un senatore dovrebbe essere testimonial del paese che lo ha eletto e lavorare, al massimo, a convincere investitori esteri a venire in Italia (il cielo sa quanto ne avremmo bisogno) e non in dittature wahabite che ti pagano fee a tanti zeri.

Non solo. La vecchia legge del 1953 sulle incompatibilità dei parlamentari probabilmente non glielo impone, ma alzandosi dalla poltrona saudita Renzi potrebbe tranquillizzare (almeno un po’) sia la pubblica opinione nostrana sia qualche cancelleria europea, assai preoccupata che un leader occidentale abbia rapporti d’affari in corso con tirannie oscurantiste. Le dimissioni potrebbero perfino favorire Renzi nelle negoziazioni di questi giorni per la formazione di un nuovo governo: con che autorevolezza potrebbe pretendere che un suo fedelissimo diventi ministro della Difesa o sottosegretario agli Esteri? Come potrebbe imporre suoi referenti nelle agenzie di sicurezza o in aziende strategiche come Eni e Leonardo?

Spiace tediare i lettori con l’ovvio, ma il momento politico ha messo un tappo allo scandalo, impedendo un dibattito pubblico che, su temi così rilevanti, sarebbe doveroso: l’eccezionalità della crisi pandemica non deve avvalorare precedenti pericolosi, che possono mettere a rischio quel che resta del rapporto fiduciario tra elettori e i loro eletti.

 

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