Papa Francesco sarà certamente abituato alle polemiche ogni volta che esprime le posizioni della chiesa riguardo a tematiche della società civile, ma chissà se si sarebbe aspettato che una delle discussioni destinate a far più rumore nel suo apostolato nascesse intorno al suo diniego nel benedire un cane. L’episodio narrato da Bergoglio pochi giorni fa, peraltro, conferma un timore che aveva già espresso: gli animali da compagnia rischiano di diventare un surrogato della natalità. Parole che hanno creato un certo disappunto nei 25 milioni di italiani che ne possiedono almeno uno.

Il desiderio di innocenza

A prescindere dal valore che attribuiamo all’affetto per il nostro cane o gatto, la portata della discussione generata dalle parole del pontefice suggerisce come abbia saputo smuovere qualcosa di più profondo, ben oltre l’esortazione scontata «qualcuno pensi ai bambini». Qualcosa che ha a che vedere con la ricerca di una qualità sempre più difficile da riconoscere con chiarezza nella nostra epoca e che è, tuttavia, essenziale per dare forma alle nostre scelte e opinioni. Indirettamente le parole di Francesco potrebbero aver smosso il nostro desiderio di ritrovare l’innocenza.

Non che anche in passato sia stata una qualità di facile reperibilità. Persino un uomo che ha conosciuto il male assoluto, Primo Levi, ci ha spiegato come nel lager esistessero “zone grigie”, dove si confondevano vittime e carnefici, sommersi e salvati. Forse è meglio così: le semplificazioni in bianco e nero non si sono mai rivelate positive nella storia. Riconoscere che possa esistere uno spazio intermedio è un modo utile per affrontare la complessità del mondo in cui viviamo.

Il rischio, però, è che nel nome di questa complessità ogni cosa sfumi nell’altra senza soluzione di continuità. Oggi forse più che mai è facile sentirci corresponsabili del male perché non abbiamo fatto nulla per impedirlo, o cedere alla tentazione di liquidare le vittime con «in fondo se la sono cercata», specie quando non siamo certi di chi siano i carnefici. Viviamo una società in cui non tutti i popoli oppressi ci sembrano innocenti allo stesso modo, e dove paladini che credevamo immacolati cadono improvvisamente per un tweet. È facile che il grigio ci appaia come una tonalità capace di espandersi all’infinito uniformando tutto.

La necessità dell’assoluto

Per non smarrirci in questa foresta cinerea abbiamo la necessità di ricordare come fossero i colori prima di mischiarsi. Ci servono i Demoni assoluti di Dostoevskij e ci serve l’innocenza assoluta, come quella degli animali o dei bambini. Ma se quella degli animali ci appare palese perché la inseriamo deliberatamente nella nostra sfera personale, quella dei bambini viene talvolta data quasi per scontata. Oggi che, fortunatamente, consideriamo naturale proteggere i minori a ogni costo, rischiamo di dimenticarci che anche la loro inviolabilità è un diritto conquistato a fatica e recentemente. Così la nostra epoca di individualismo ha paradossalmente finito per generalizzare l’innocenza dei bambini, fino a considerarla un banale dato di fatto. Almeno fino a quando una foto in prima pagina ci ricorda che sono sempre loro il primo bersaglio di ogni atto di guerra.

Nella zona grigia qualcuno deve pur rammentarci l’esistenza dei due estremi ed è giusto che, per incarnare l’innocenza assoluta, i bambini diventino un punto di riferimento. Sarebbe tuttavia un errore considerare quella stessa innocenza come escludente. Il fatto di riconoscerla anche negli animali non è un atto di sostituzione o egoismo, piuttosto il risultato dell’idea che si possa allargare la nostra sensibilità riconoscendo l’innocenza in altre forme che ne rendono ancor più nitida la visione.

Così come esistono infinite variazioni dell’oscurità, possono coesistere anche infiniti tratti di umanità per farci sentire l’uno vicino all’altro. Dopotutto, di fronte a un paio di occhi innocenti che ci chiedono aiuto, dovremmo provare sempre lo stesso sentimento, non importa se all’altro estremo troviamo o meno una coda.

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