«Ogni uomo prima di morire deve mettere al mondo un figlio, costruire una casa, scrivere un libro e piantare un albero». Questo famoso proverbio cinese sembra indicarci come, per il fine dell’esistenza, l’incremento della cultura e delle risorse sia importante, ma in fondo subordinato a quello demografico. Il “perché” questi obiettivi vadano conseguiti non è mai stato messo in discussione; in compenso oggi dibattiamo sul “come” realizzarli.

Ed è comprensibile considerando che, se la vocazione letteraria e il pollice verde sono a buon mercato, per riuscire ad avere un figlio e un tetto sulla testa le cose sembrano più complicate rispetto ai tempi di Confucio.

Tuttavia, potrebbe essere arrivato il momento di mettere in discussione l’intero assioma, magari scoprendo che gli investimenti a favore della natalità recentemente promessi dal governo potrebbero non essere sufficienti per convincerci a fare “il nostro dovere” per il bene della patria e dell’umanità.

Diritto da tutelare

Intendiamoci: perseguire il legittimo desiderio parentale è un diritto che lo stato ha la responsabilità di promuovere e tutelare. Così come è innegabile che tra le prime cause che frenano la costruzione di una famiglia vi sia la carenza di un welfare dedicato.

E, tuttavia, se sostegno economico, congedo di paternità, asili nido per tutti sono tradizionalmente cavalli di battaglia della sinistra nel quadro di politiche sociali inclusive, oggi assomigliano più alle munizioni minime necessarie per futuri drappelli di padri e madri chiamati alla battaglia.

Quella italiana è la società europea che invecchia più in fretta, ma il fatto che la crescita sia rallentata anche in paesi dove da decenni troviamo asili dentro le aziende è il segno che la genitorialità è una scelta legata a variabili più complesse. Viviamo una modernità in cui la medicina aspira a liberarci dalla necessità di avere chi si prenderà cura di noi dopo i 70 anni. Inoltre, al netto di chi antepone legittimamente alle notti con un biberon la propria realizzazione personale o professionale, oggi un figlio non è più visto come l’unica via per dare un senso alla propria esistenza all’interno della collettività.

Generatività pubblica

C’è chi preferisce dirottare tempo e risorse dalla “genitorialità parentale” verso una “generatività pubblica”, condividendo il proprio impegno e il proprio talento o ancora contribuendo a rendere il mondo più sostenibile. La nostra società potrebbe persino considerare di non aver più bisogno di figli, optando per un decremento demografico felice, in cui i costi dell’invecchiamento sarebbero compensati dalle risorse redistribuite.

Ma la verità è che generare dieci figli, scrivere dieci libri, fare beneficenza o creare case di riposo in cui saremo coccolati da intelligenze artificiali non serve a nulla se prima non sviluppiamo un progetto di società in cui collocare queste scelte.

Perché procreare umani o opere d’arte rischia di essere soltanto un monumento alla nostra realizzazione personale, se non si è più in grado di immaginare visioni capaci di guidarli nel futuro. Sono le stesse visioni che costituiscono da sempre il nucleo delle comunità che accoglievano i figli come parte integrante di un progetto “comune”, in senso letterale, se pensiamo alle torme di ragazzini cresciuti tra nonni e vicini, in cortili, campetti e bar di quartiere.

Bambini voluti da genitori, incuranti del fatto che il mondo fosse un posto più ostico di quello di oggi, ma sapendo che migliorarlo era una responsabilità condivisa, quanto prendersi cura di quei ragazzi.

Problema individuale

Ma oggi in una società che aspira al benessere personale, anche avere un bambino viene percepito come un “problema” individuale. La sfida della politica quindi non sarà solo quella di fornirci le risorse, ma ricordarci che per crescere un figlio, costruire una casa, scrivere un libro e piantare un seme bisogna, prima di tutto, immaginare la società, la città, la biblioteca e il bosco che li accompagneranno.

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