L’incendio che sabato pomeriggio ha oscurato per gran parte del pomeriggio il cielo di Roma rischia di lasciarci con un senso di resa. Ma se ci impegniamo a essere lucidi potremmo capire perché il rogo, l’ennesimo di queste ultime settimane, ci chiede un’attenzione duplice alle sfide che la politica dovrà affrontare nel prossimo futuro. 
Partiamo dalla reazione dei social, che non è stata nemmeno di sdegno, ma tra lo stupore e il sarcasmo, come di fronte a un trailer di un’apocalisse.

L’immagine di una città lasciata in pasto alle fiamme è legata a un immaginario almeno bimillenario, da Nerone in poi, ma negli ultimi anni il fuoco è il simbolo della città ingovernata e ingovernabile: tra l’era Raggi e quella Gualtieri sembra non esserci discontinuità, tra gli autobus che esplodono, i tmb (2018 Salario, 2022 Malagrotta) da cui scaturiscono fiamme così alte da somigliare a funghi atomici. 
Il principio del grosso incendio di sabato è stato collocato agli sfasci vicino al parco naturale di Centocelle; in un secondo momento ci si è resi conto che l’origine erano i rifiuti non raccolti ammassati dove c’era il campo rom Casilino 900 sgomberato già qualche anno fa.

Nei giorni precedenti i vigili del fuoco erano dovuti intervenire in zone di Roma anche molto distanti tra loro, da Boccea a Pineta Sacchetti, da Forte Bravetta al ponte della Scafa; e una pioggerella di fuliggine è diventata un evento atmosferico quasi naturale in questa estate di caldo fuori scala. 
Qualunque politico, dal sindaco in giù, cerca di reagire a uno scenario da ultimi giorni della Terra senza sconforto, ma se le emergenze diventano quasi quotidiane lo stile di governo non può essere quello di una volitiva normale amministrazione.

La parola chiave è la manutenzione, certo: ma cosa vuol dire mantenere un territorio dove ci sono intere aree lasciate all’anomia, anzi dove l’anomia è stata la forma con cui si è progettata una parte consistente di città? 
Il campo rom Casilino 900, l’idea di un ghetto per gli umani che ha finito per diventare una discarica a cielo aperto prima e dopo lo sgombero, non è stato un effetto collaterale incontrollato di alcune politiche sulla città, ma il frutto in fondo consapevole di una stagione come quella veltroniana in cui si è pensato di rimappare la città suddividendola in zone vivibili e zone invivibili: enclavi e ghetti, quartieri bene e scarti.

Ora questi scarti, come un rimosso che non si è voluto guardare, riemergono.

Una parte rilevante di Roma ha queste caratteristiche: aree vicino al fiume, accampamenti informali, sfasciacarrozze, discariche improvvisate… Che da qui nascano dei roghi non è sorprendente.

Sono terre di nessuno dove i poveri trovano temporaneamente rifugio. 
C’è poi il clima infernale che ha colpito e colpirà in maniera permanente città che finora si sono pensate come mediterranee.

Per gli incendi di Roma vale una riflessione simile a quella che in queste settimane si è generata intorno alla tragedia della Marmolada.

Non possiamo ritenere che l’ambiente urbano non stia subendo modifiche irreversibili, ed evitare di agire di conseguenza.

Il futuro delle città italiane sarà sempre di più questo: siccità, desertificazioni, incendi, problemi di approvvigionamento idrico, vegetazione infestata da malattie tropicali… 
Il cambiamento climatico richiede una profonda conversione dell’agire ma anche della nostra mentalità politica.

Altrimenti l’unica alternativa è sperare che le fiamme non arrivino alle nostre case mentre facciamo qualche battuta su Nerone o scattiamo qualche foto al cielo nero di fumo.

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